lunedì 7 dicembre 2020

UNA SEMPLICE STORIA DI UN NATALE DEGLI ANNI '60


UNA SEMPLICE STORIA DI UN NATALE DEGLI ANNI '60

La sera del 24 dicembre eravamo chiusi dentro alla nostra cameretta e insieme a noi c’era nostra zia. Da dietro la finestra ammiravamo i fiocchi di neve che scendevano pigri e lenti. Nel silenzio magico di quella notte soltanto una stella brillava più luminosa delle altre. Mentre la zia ci raccontava una storia natalizia noi, ammutoliti da quella straordinaria atmosfera, non potevamo che tenere gli occhi spalancati con lo sguardo fisso sulla stella e la bocca semi aperta accompagnava lo stupore. Con il nasino schiacciato sul vetro lasciavo l’alone del mio respiro e il cuore batteva così forte che persino la zia, tenendomi in braccio, si emozionava osservandomi. Mentre una manina posava sulla sua spalla, l’altra stringeva quella di mia sorella. Quel momento lo attendavamo ogni anno e ogni anno l’emozione di viverlo era immensa. Ripensandoci oggi credo che i miei genitori avessero architettato tutto nei minimi particolari, è anche vero che creare una sorpresa simile per due bimbi non era poi così difficile, cosa che però richiedeva un certo tempismo. Mentre la zia, con il pretesto di farci ammirare l’avvicinarsi di quella stellina, ci portava in cameretta, mia mamma e mio papà si precipitavano a collocare i regali sotto l’albero che nei giorni precedenti il Natale avevano nascosto in posti a noi non accessibili, quindi anche loro ci raggiungevano. Solo dopo aver udito il suono del campanello di casa andavamo tutti in salotto. Forse mia sorella, più grande di me di cinque anni, qualcosa aveva sospettato, mentre io, ignaro della situazione che si stava creando, ci credevo dal profondo dell’anima. Ricordo che la zia, per dare tempo ai miei, raccontava una storia tanto fantasiosa quanto emozionante. Un Gesù Bambino accompagnato da un Babbo Natale arrivavano da molto lontano a cavallo di una stellina, giravano sulla nostra casa, la illuminavano con i raggi della stella, quindi suonato il campanello di casa e lasciati magicamente i regali sotto l’albero in salotto ripartivano per altre consegne. Ricordo che una volta, forse per un errore sequenziale delle azioni e per la mia impazienza, non appena sentii il suono del campanello riuscii a svincolarmi da mia zia, corsi fuori dalla stanza dove i miei non erano ancora presenti e li vidi correre verso il salotto con svariati pacchi tra le braccia. Alla cosa non diedi molta importanza, importanti erano invece i doni portati da Gesù Bambino e Babbo Natale. Naturalmente la scenetta del campanello durò ancora un anno forse due. Col tempo, giustamente e con un velo di tristezza, venni a sapere che mio padre e mia madre si accordavano con la gentile vicina di casa che, ad un’ora prestabilita, suonava puntualmente il campanello del nostro appartamento. Stessa cosa faceva mia madre per i suoi figli. Una stretta collaborazione natalizia di buon vicinato condominiale, basata su una strategia talmente ben studiata e sincronizzata in ogni singola azione (salvo errori procedurali), creava un’emozione unica che persino Babbo Natale avrebbe voluto viverla. Ancora oggi, trascorsi più di cinquanta anni da quelle notti magiche, rivivo con la memoria e col cuore quei momenti, la voce calda della zia, lo stringere della mano di mia sorella, i miei genitori anch’essi emozionati, il suono del campanello di casa. La stessa identica cosa venne ripetuta nel tempo, a casa di mia sorella e i protagonisti però erano mio figlio e i miei nipoti, io con mia sorella e i rispettivi moglie e marito correvamo a mettere i pacchi sotto l’albero, mentre mio papà e mia mamma ci osservavano con la stessa emozione di tanti anni prima. Mia zia invece aveva mantenuto il suo ruolo di narratrice, raccontare ai bimbi la storia di quel Gesù Bambino che insieme a Babbo Natale arrivavano sopra una stellina. Dimenticavo, il passaggio del suono del campanello veniva saltato, mia sorella non vivendo in un condominio non ha vicini di pianerottolo, quindi un “sono arrivati, sono arrivati” sostituiva, anche se a malincuore, la vicina di casa. Devo dire che i miei erano molto più scaltri e più organizzati di noi, i nostri figli ci “sgamarono” molto velocemente, tanto che finimmo per invertire i ruoli, loro mettevano i pacchi sotto l’albero riuscendo anche a suonare il campanello, io e mia sorella correvamo in salotto. Prima però la zia ci raccontava, tra una risata e una lacrima, la storia. Oggi, che non sono più gli anni ’60 e neppure quelli dell’infanzia dei figli ma sono quasi 60 gli anni della mia età, mentre faccio l’albero di Natale in salotto (da un paio di anni lo fanno mio figlio con la sua ragazza), ripenso con nostalgia a quei Natali. Ancora conservo alcuni regali dell’epoca, un Robot a batterie che camminava illuminandosi, un razzo Apollo 11 (per intenderci quello che portò l'uomo sulla luna) e un camion con il cassone ribaltabile. Sono in cantina, tutti nelle loro scatole originali e forse anche funzionanti, riposti insieme agli addobbi natalizi di quegli anni. A volte penso che potrei prenderli, portarli a casa e, lasciando quella polvere del tempo, incartarli per poi posizionarli sotto l’albero, quindi andrei ad aprire la porta d’ingresso, suonerei il campanello e poi di corsa a scartarli. Non mancherebbe nulla, penso che ci starebbe anche mia sorella che, conoscendo il suo attaccamento a quel ricordo, se glielo proponessi condividerebbe l’iniziativa senza non prima andare alla finestra, osservare la neve che scende e stringendoci la mano raccontarci quella storia. Non mancherebbe nulla e nessuno. Da lontano una stellina si avvicina e dietro a lei altre quatto … mamma, papà, zia e …la buona e cara vicina di casa.

 




Sergio Saracchini

Otto/12/duemilae20



 

domenica 29 novembre 2020

Se c’è qualcuno che …

 

Se c’è qualcuno che …

 

Indietreggiano i pensieri

nella mente debole del tempo

e pigri attendono la luce

di qualcuno che li svegli.

Se quel qualcuno esiste

si faccia avanti senza paura

stando attento a non scuotermi

io sono un cielo di cristallo

che potrebbe andare in frantumi

con le saette delle urla

io sono neve che si scioglie

dentro un rovente alito di rabbia

o un soffione nel turbinio

di un soffio di cattiveria.

Solo energia dammi tu se esisti

e io non temerò nulla

che sia rovina tempestosa per me.

Aiutami a trovare

un passaggio segreto

per farmi uscire allo scoperto

e rialzare quella torre demolita

dalla mia solitudine.

Regalami un attimo leggero

dove fluttuare volteggiando

nella libertà con due ali

per sorvolare le frontiere

degli sguardi ostili

e schivare quel sasso

lanciato da una fionda

in cerca di una preda.

Se c’è qualcuno ad ascoltare

la mia stanchezza che nasce

dal desiderio di non ascoltare

il non linguaggio che cerca

di tendermi un agguato

allora mi illumini la strada

senza nulla pretendere

perché nulla ho da dare

solo pensieri segreti

pronti ad essere condivisi

come la conchiglia e il mare

la roccia e la stella alpina

come un gabbiano e un cielo.

Se c’è qualcuno

che sappia prendermi al volo

durante una caduta libera

allora tenda la mano

senza paura di ferire.

Insieme sentiremo il freddo

e poi il calore morbido e profumato

di una tenera mollica di pane

lavorato nella notte

sfornato al mattino

e pronto per essere distribuito

a chi ha fame buona di me.

 

         ***

 

Sergio Saracchini

Venti9 9mbre 2milae20

IlCaLaMaIoDeLcUoRe

 

 

domenica 15 novembre 2020

SURIV E MASCHERINA


 

SURIV E MASCHERINA

Desideravano immensamente avere un bimbo o una bimba. Da un amore a prima vista a un lungo periodo di fidanzamento il passo fu breve. Era l’anno 2069, quello della prima elementare. Ricorrevano cinquant’anni da quando il SURIV si era insinuato tra gli esseri umani con una conseguente pandemia permanente. In cinquant’anni il progresso, in campo medico e scientifico, aveva fatto passi da gigante, senza però porre rimedio alla diffusione di questa malattia epidemica su scala globale.  Si erano trovate cure a malattie che, anni addietro, era impensabile venissero sconfitte e debellate definitivamente. A questo si aggiunse il prevenire all’origine di fenomeni che portavano alle diverse alterazioni genetiche, riuscendo a rallentare eventuali processi di sviluppo e a riparare anomalie che inducevano una cellula ad andare incontro a un processo di morte programmata. Una vittoria assoluta per l’ESSERE UMANO. Cure e guarigioni da sindromi, malattie rare, degenerative, genetiche ma… non dal SURIV. Negli anni si era evoluto mutando. I vaccini impiegati non avevano risultati di guarigione e solo una buona protezione delle vie respiratorie poteva preservare l’uomo dall’esserne contagiato. Cinquant’anni orsono i dibattiti e i pareri sull’uso della mascherina erano all’ordine del giorno. Sostenitori e scettici si scontravano sull’utilizzo o meno di un dispositivo di protezione. Per i favorevoli utilizzare la mascherina aiutava ad allontanare di molto la minaccia d’essere contagiati, per i contrari usarla, sia pur correttamente, rimaneva inefficace.  Mentre nei laboratori di tutto il mondo si studiava un vaccino che potesse sconfiggere definitivamente questa pandemia, la gente, piangendo la scomparsa dei propri cari, continuava a vivere adeguandosi a questo flagello. Nonostante tutto la vita andava avanti, così come il lavoro, la scuola, il tempo libero, lo sport, gli eventi di natura diversa. Tutto era rientrato in una quotidiana normalità. Non vi era in atto nessun tipo di limitazione, tutto era consentito a qualsiasi ora del giorno o della notte. Non esistevano zone a rischio, gli spostamenti erano permessi sia dentro i propri confini nazionali ma anche oltre. Non si parlava più di vaccini veramente efficaci a contrastare il SURIV. L’uso della mascherina, un tempo obbligatorio in alcuni casi e facoltativo in altri, era divenuto essenziale per la sopravvivenza. Dove ancora non si era riusciti a trovare l’antidoto al SURIV erano invece stati generati e  messi in circolazione ausili di protezione che ne permettevano, senza alcun sacrificio e disagio, l’uso quotidiano. I materiali erano cambiati, molto più leggeri e adattabili al viso, il fattore di protezione era garantito a vita e non occorrevano operazioni di lavaggio e sterilizzazione. Mezzo secolo fa, a meno che non si fosse nella propria abitazione, si poteva ancora non indossare la mascherina, ma le situazioni in cui era permesso farlo erano molto rigide e il SURIV era si virulento ma non ai livelli del momento. L’essere umano, cinquanta anni dopo la comparsa del SURIV, non avendo ancora scoperto nessun vaccino, era costretto ad indossare la mascherina a casa, sia in situazioni di singola persona che di nucleo familiare. Il SURIV, col suo alto potere di trasmissibilità, dilagava non solo attraverso droplets prodotti da un colpo di tosse o da uno starnuto di una persona infetta ma anche se depositati su oggetti di qualsiasi materiale, resistendo nel tempo e in qualsiasi condizione ambientale. La nuova mascherina era composta da un materiale altamente filtrante che neutralizzava completamente, rendendo innocua e seccando per poi disintegrarla, ogni particella di SURIV che vi si depositava. Si era arrivati a non togliersela neppure durante la notte grazie  a leggerezza  e adattabilità che possedeva. Il materiale era nel contempo ignifugo e idrorepellente. Ci si domanderà, ma come ci si comportava per mangiare, bere, lavarsi i denti o semplicemente per gli uomini radersi, regolare la barba e per le donne mettere il rossetto o un fondotinta? Era passato il tempo da quando il SURIV, nella sua “limitata” virulenza, dava comunque la possibilità di alzare la mascherina per portare  bicchiere e forchetta alla bocca per poi riabbassarla, così pure per lavarsi il viso e spazzolare i denti. Il SURIV avanzava senza dare cenni di cedimento ma il progresso lo teneva a bada. Una pellicola sottilissima e impercettibile alla vista, tanto da sembrare pelle, copriva perfettamente naso e bocca e permetteva una regolare respirazione aderendo perfettamente al viso grazie a delle piccole ventose che andavano a sostituire i classici elastici attorno alle orecchie. Il suo strato di 4-5 nm era un film idrolipidico cutaneo con proteine ad esso associato e delimitava e circoscriveva ogni cellula epidermica. La pellicola racchiudeva anche uno spazio interno che mediava le relazioni con l’ambiente esterno dove i ricercatori avevano inciso minuscoli pori che permettevano, addirittura senza togliersela, di bere, portare la forchetta alla bocca, usare lo spazzolino, il rasoio per gli uomini o il rossetto per le donne.  Tutti questi oggetti portavano a termine la propria funzione attraversando quel sottile schermo ma senza lacerarlo o danneggiarlo, inoltre deteneva un alto potere di filtraggio dell’aria con un annientamento di impurità presenti sugli oggetti che si portavano alla bocca. Finalmente anche un semplice bacio sulle labbra era permesso e solo un SURIV era trasmissibile… quello dell’amore. L’amicizia tra i due bimbi, nata nel 2069 dietro ai banchi di scuola, li portò nel 2099 alla loro unione in matrimonio ma il SURIV era sempre presente. Ottanta anni erano trascorsi da quando il SURIV fece la sua comparsa sulla terra e in ottanta anni non si era ancora scoperto un vaccino capace di arrestarlo, esisteva solo una parola che significava salvezza e vita, quella parola era mascherina. Gli anni passavano il SURIV no. Questo non impedì all’ESSERE UMANO di procreare e moltiplicarsi. Si studiarono nuove tecnologie per proteggere il bimbo ancora prima che la madre lo mettesse al mondo, da sale parto munite di un sistema di ventilazione, climatizzazione e ricambio d’aria a strumenti robotici che posizionavano in maniera permanente la mascherina sul viso del nascituro. Per ultimo la chimica farmaceutica. Una semplice pillola che, somministrata alla madre, generava la formazione e la collocazione della pellicola protettiva su bocca e naso. Nel 2119 ricorrevano i cento anni da quado il SURIV si era propagato e radicato sulla terra. Il SURIV era vivo ma ancora più vivo era l’ESSERE UMANO. Ci vollero cento anni perché l’uomo non facesse più ricorso ad operazioni di protezione necessarie alla difesa . Come la “preistorica” mascherina in tessuto filtrante anche la  formula chimica, che generava e programmava il posizionamento di una sottilissima ed impercettibile pellicola su naso e bocca, scomparve definitivamente. Il racconto della nonna terminò. La nipotina prima di addormentarsi domandò: “Nonna, ma la mascherina è scomparsa del tutto o si usa ancora? La nonna accarezzò il viso della piccola sfiorando delicatamente la fronte, il nasino, le guance e le labbra. Prima di chiudere la porta della cameretta le sussurrò” …. tra cinquanta anni o forse più i bambini di oggi riusciranno a rispondere ai bambini di un domani …

                                                                                  Sergio Saracchini - quindici9mbre2milae20

domenica 25 ottobre 2020

D P C M

 

DPCM

 

Tutti i visi erano sereni. Il luogo, in quell’occasione e a quell’ora, era affollato ma non troppo e il distanziamento rispettato. Nulla e nessuno ostacolava il passaggio. Il DPCM contemplava alcune restrizioni, dove prima era permesso ora il limite veniva imposto. A discrezione delle autorità competenti piazze e viali, di massimo transito, potevano diventare zone rosse . Le attività dei servizi di ristorazione, bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie, erano consentite dalle ore 5 del mattino sino alle ore 24 con consumazione al tavolo e fino alle ore 18 in assenza di posti a sedere. Inoltre, fino a 6 persone il numero massimo di consumatori che potevano prendere posto al tavolo. Col passare del tempo si ventilava che un ulteriore nuovo DPCM potesse portare ad una situazione di “coprifuoco”, termine che mi riconduceva ai racconti dei miei genitori durante la guerra. Le disposizioni riguardavano anche scuole e mezzi pubblici, insomma, accorgimenti necessari a contrastare il diffondersi del virus. Oltre a questo non c’era altra soluzione, anzi no mi correggo una barriera esisteva, la mascherina, l’obbligo tassativo della mascherina. L’stinto di togliermela, per poter respirare liberamente, era notevole, ma qualcuno dei presenti, che come me transitava, avrebbe potuto giustamente protestare e imprecarmi contro parole quali “sprovveduto incosciente”, per arrivare a tacciarmi d’essere un  “potenzialeasintomaticountorenomasknegazionistapositivoinunmomentonegativo”.

La condensa prodotta dal respiro sotto la mascherina mi appannava in maniera consistente e persistente l’interno delle lenti degli occhiali. Quella semplice e buffa situazione mi ricordò l’Alfasud del 1970 di mio padre.  I vetri fortemente appannati dall’interno per la mancanza d’aria calda dai bocchettoni, la non dotazione di un sistema di aria condizionata nell’auto, il mio divieto imposto, agli amici, di non abbassare i finestrini perché si potevano bloccare e faceva freddo e il crescente fattore umidità prodotto da chi era stipato nell’abitacolo, lasciavano un’unica alternativa, quella di pulire l’interno del parabrezza o usando occasionalmente il dorso della mano o quasi sempre un lurido straccio conservato come un orrido peloso feticcio tribale che, oltre a non assorbire e asciugare, lasciava strisce e aloni che ricordavano le immagini satellitari del meteo in tempo reale con l’arrivo di un vortice perturbazionale di bassa pressione a carattere ciclonico.  Mancava che lo straccio riproducesse l’immagine di un serio esperto meteorologo quale il mitico Generale Edmondo Bernacca, con il barometro rotondo alle sue spalle, e le previsioni erano pronte. Tornando ai miei occhiali avrei potuto toglierli e risolto il problema dell’appannamento ma rimaneva quello della vista che, constatata la mia forte miopia, mi avrebbe fatto procedere brancolando in una fitta foschia. Praticamente,  con la mascherina e gli occhiali  o con la mascherina ma senza occhiali la situazione nebbia persisteva. A parte questa parentesi descrittiva, certamente  comica, di come il mio occhiale si trovasse appannato, l’istinto di abbassare la mascherina sotto il naso per respirare liberamente era tanto, ma non lo feci, decisi di rimanere nelle condizioni persistenti delle previsioni del Generale Bernacca “consistenti banchi di nebbia in Valpadana…”. Ai tempi della scuola per dire che la nebbia era fitta si usava la battuta “… la nebbia oltre a essere a banchi è anche a cattedre...” Oggi mi adeguo e aggiungo che se la nebbia, a banchi, avesse le “rotelle” con una spinta riuscirei a spazzarla via.

Con le persone che incrociavo ci si scambiava uno sguardo veloce accompagnato da una sorta di saluto, a questo anche il pensiero che l’avere tutti la mascherina ci portava ad uno stato di tranquillità, protezione e blindatura verso ignoti e innocenti propagatori di virus.

Proseguendo il mio cammino avvistai  in lontananza una sagoma che di primo acchito mi sembrava familiare. La condensa prodotta dalla mascherina che appannava il parabrez… cioè le lenti, il chinare la testa un po’  in avanti e un po’ in dietro per cercare, inutilmente,  di produrre una sorta di corrente d’aria che potesse aiutarmi a disappannare gli occhiali prima di arrivare a incrociare la persona,  mi portò, annebbiato, a trovarmi faccia a faccia, anzi mascherina a mascherina, con l’individuo che aveva lo stesso mio inconveniente alle lenti dei suoi occhiali. Ci soffermammo e il dubbio di conoscerci ci assalì simultaneamente. Ci riconoscemmo. Un vecchio conoscente di famiglia. Dalle nostre bocche non uscirono parole ma suoni ovattati e soffocati, questo non tanto da me ma da lui essenzialmente. Presto detto il perché. Il tono della sua voce era sempre stato basso e come il mio udito si era ulteriormente abbassato, inoltre l’acufene che avevo mi limitava, ancora di più,  il percepire distintamente le parole.  Indossava una di quelle mascherine che pure io avevo  acquistato nel primo lockdown, quando in giro se ne trovavano pochissime e le farmacie te le facevano pagare come un capo acquistato nel Quadrilatero della Moda, precisamente in Via Monte Napoleone a Milano. Quel tipo di mascherina non la usai mai, non tanto per conservarla e usarla come una reliquia visto il prezzo ma per la sua caratteristica contenitiva. Il dispositivo era stato prodotto con materiale certamente protettivo ma altamente e fortemente elasticizzato. Praticamente il naso veniva schiacciato tipo quello dei cani che appartengono a razze brachicefale (boxer, carlino, buldog …), la bocca era sigillata a tal punto da provocare un’alterazione dell’articolazione temporo-mandibolare per arrivare ad una situazione di risucchio in bocca del tessuto della stessa mascherina. La fase respiratoria la tratterò più avanti.  La prima e unica volta che la indossai, anche con una certa difficoltà, fu naturalmente a casa. Non era dotata di elastico leggero che si colloca attorno alle orecchie (vedi modello chirurgico) ma da due porzioni, a fascia, della stessa mascherina che dovevano essere posizionate una alla base dell’osso occipitale e l’altra tra quello parietale e frontale.  Riuscii a indossare la mascherina. Mi misi di fronte allo specchio e in quel preciso istante incamiciarono a scorrere i titoli e le immagini di due film, Il Silenzio degli Innocenti e Guerre Stellari, uno l’opposto dell’altro, ma le caratteristiche dei protagonisti dei film venivano riprodotte sia sul mio viso che nella respirazione. La maschera del dottor Hannibal Lecter, de Il Silenzio degli Innocenti, e il respiro di Dart Fener o Lord Fener , qual si voglia, di Guerre Stellari.  

Resistetti neanche un minuto. Credo che neppure il grande Enzo Majorca sarebbe riuscito a resistere nonostante una sua prima iperventilazione per una immersione in assetto variabile. La conservo nel suo cellophane, come quella primissima che avevo confezionato con la carta da forno, a ricordo di questa pandemia che mi auguro presto arrivi al termine. Dimenticavo, per la cronaca ne comprai tre, una anche per mio figlio e per mia moglie che, vedendo il risultato sul mio viso, non la estrassero neppure dalla confezione lasciandola integra con ancora il prezzo attaccato, forse per attendere la quotazione in borsa.

Ritorno all’incontro con Dart Fen… cioè con il conoscente.

Dopo esserci scambiati reciproci e brevi mugolii (presumo sul come va e convenevoli vari) ci salutammo, almeno credo. Allontanarsi l’uno dall’altro fu un toglierci dall’imbarazzo di non riuscire a parlare e, soprattutto per me, di sentire. Mai come in quella occasione desideravo mantenere il distanziamento sociale o meglio... vocale.

Si era fatto tardi e guardando l’orologio valutai che era giunta l’ora di rientrare a casa, era l’ora di chiusura. Rimasi solo, in giro non c’era più nessuno.

I loro visi erano sereni e infondevano amore. Mi guardavano ed erano tutti senza mascherina.

Prima di uscire rivolsi lo sguardo verso mia madre e mio padre.    Li salutai e mentalmente dissi “… ci vediamo sabato prossimo”.

Una piccola lacrima mi scese ma non ebbe il tempo di mostrarsi a loro, venne inghiottita all’interno della mascherina. Pensavo, chissà cosa avrebbero detto di questa situazione, loro che hanno visto e vissuto una guerra, che si sono risollevati dopo una guerra, che hanno lavorato e ricostruito dopo una guerra. In un certo senso siamo in guerra anche noi, chi più e chi meno. Una cosa è certa ne usciremo vittoriosi. Sconfiggendo questo nemico invisibile e subdolo ricominceremo a lavorare e a rivivere in piena libertà.

Il cancello si chiuse automaticamente alle mie spalle. Salii in auto e mi accorsi che una piantina di fiori, da posizionare nella vaschetta in marmo, mi era caduta. Non importa, a casa la metterò vicino alla cornice che contiene le loro foto. Mi abbassai la mascherina, le lenti si disappannarono, il respiro tornò regolare e libero. Misi in moto  l’auto e partii.

Mentre percorrevo la strada accessi la radio, cercavo un canale che trasmettesse qualche canzone e musica dei miei tempi. Lo trovai. Stavano trasmettendo il celebre brano “Get Down On It” dei “Kool And The Gang”, gruppo storico degli anni 70-80. Il ritornello della musica mi portò a sostituire la parola Get con Lock.

Guidavo e canticchiavo  … Lock Down On it…   

 Dopo qualche minuto la musica si interruppe lasciando il posto ad una edizione straordinaria del radiogiornale.

Era stato firmato e veniva data lettura di un nuovo DPCM .

          Lock Down On it     


Sergio Saracchini                        

20cinque8bre2000venti                                                                                             


domenica 18 ottobre 2020

Cambio di stagione

 

Cambio di stagione

 

Nello scrivere questi versi

ascoltando il mite silenzio

s’ode soltanto il respiro

della sera che avanza

e se ne vanno anche le ore

lunghe di un’estate soffocata

dal bavaglio che frena parole.

 

S’allontana l’estate volando

e lasciando l’aria umida e pesante

che appanna lo sguardo d’autunno

con il bavaglio intriso di dubbi.

 

Cadono le foglie pallide

dal ramo gracile e sospeso

come le certezze svaniscono

con l’ultima luce della sera

lasciando solo maschere sui visi

nascondendo labbra assorte

nel recitare una preghiera.

 … e così sia.

 

Sergio Saracchini

Dici8bre2mila20

 

 

 

 

 

domenica 11 ottobre 2020

Bee Gees: ”Stayin Alive”

 

Bee Gees: ”Stayin Alive”

Gliela puntò dritta alla fronte, lui rimase immobile. Il viso era coperto, si potevano vedere solo gli occhi, un azzurro glaciale. Anche se quel giorno il clima non era tra i migliori e l’inverno elargiva gelidi baci, il viso era accaldato e la fronte imperlata di sudore. L’uomo mirò, premette il grilletto ma non successe nulla, esitò un attimo poi abbassò il braccio e girandosi si allontanò. Lo lasciò lì ad attendere la sua sorte. Rimase immobile, non poteva sottrarsi al suo destino. Brividi gli scuotevano il corpo. Nella sua mente vagavano i pensieri più strani, ripercorreva con la memoria i giorni precedenti a quello che stava vivendo e una carrellata di volti scorreva di fronte ai suoi occhi, quelli della sua famiglia, dei parenti, amici, colleghi e conoscenti, insomma tutti quelli che conosceva e lo avrebbero ricordato. Rifletteva che nella vita si era sempre comportato correttamente, certo alcune mancanze tutti le hanno avute, così come debolezze e momenti di eccesso sia pur moderato. Sentiva le forze venir meno e l’idea della fuga incominciò a prendere il sopravvento. Poteva approfittare di quel momento di assenza dell’uomo per girarsi e fuggire ma sarebbe stato peggio, lo avrebbero rincorso e riacciuffato immediatamente. Non era mai stato un tipo agile e dedito allo sport e il suo fisico, sia pur sano e senza grossi problemi fisici vista l’età non più giovanissima, non gli avrebbe permesso di dileguarsi senza farsi riprendere. Decise di rimanere lì, immobile sul posto dove era stato bloccato. Pensò a suo padre, a sua madre, a quei momenti che passarono durante la guerra, quando un invasore cercava di imporsi con la forza delle armi e solo la fortuna poteva salvarli. Non c’erano stati  presupposti, non c’erano stati collegamenti con gli eventi. La mente viaggiava per conto suo, sembrava il cestello di una lavatrice che vertiginosamente gira con il suo carico di pensieri colorati di nero, di rosso misti a tinte tenui e pure, come celeste e rosa pallido. Un finale centrifugato da dove esce un risultato macchiato. Si ricordò che in una taschina del portafogli vi era qualcosa che poteva aiutarlo. Un documento rilasciatogli tempo addietro. Lo trovò. Malauguratamente non era più valido, scaduto da tempo, non rinnovabile se non su esplicita richiesta delle autorità preposte. Decise di ritornare sui suoi metaforici passi, visto che era immobile come una statua e rimanere in attesa del ritorno dell’uomo. Caldo e freddo, nel suo corpo e sulla pelle, stavano facendo a gara a chi doveva dominarlo. Brividi di freddo rompevano le gocce di sudore che scendevano lungo la schiena. Il viso paonazzo e gli occhi lucidi. Nella stanza, dove si trovava, si udiva il ritorno di una voce che usciva da una radio gracchiante. Un giornalista riassumeva le notizie che di ora in ora e giorno dopo giorno aggiornavano lo stato delle cose che si era imposto. Stava ascoltando distrattamente quando gli parve vedere da lontano una persona che poteva ricondurlo a qualcuno che conosceva. La persona, di cui si potevano scorgere solo gli occhi, era un vecchio conoscente cui tempo addietro aveva aiutato ad uscire da una situazione critica, non si sarebbe mai rifiutato di sdebitarsi. Lo cercò con lo sguardo, non si sentiva di chiamarlo per nome. Miracolosamente la persona si voltò nella sua direzione e gli occhi si incontrarono. Alzò la mano come per chiedere di avvicinarsi. Il conoscente, dopo un momento di esitazione e un accenno ad avvicinarsi si fermò, alzò le spalle, aprì le braccia e scrollò la testa come dire “amico mio non posso fare nulla”, quindi, traducendo i suoi reali sentimenti di dispiacere, si allontanò insieme ad un drappello di persone. Era finita. L’uomo che aveva mirato alla fronte tornò. Il passo sicuro, la mano ferma, il braccio teso. Intanto la radio aveva cambiato programmazione, delle canzoni degli anni 70’ e 80’ avevano preso il posto del notiziario. Ironia della sorte una di queste lo riportò ai tempi delle gioventù, dove non vi erano limitazioni, dove si poteva eccedere, sempre dentro ai limiti, con il massimo e rigoroso rispetto della legge e delle autorità. Il gruppo che suonava era quello dei Bee Gees. In quel preciso istante, quando i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb intonarono le parole che davano il titolo al loro successo “Stayin' Alive”, colonna sonora del mitico film con John Travolta, “The saturday nigth fever”, l’uomo premette il grilletto… 35,5°.


                                                                                                                                                                                 Sergio Saracchini

                                                                                                                                                                                    1dici8bre2mila20

 

 

 

 

domenica 4 ottobre 2020

A volte una poesia…

 

A volte una poesia…
 
A volte serve una poesia
per aprire i lucchetti quotidiani
e  alleggerire la fatica delle parole
pesanti e cupe che s’addensano
minacciose su anime indifese.
 
Ma bisogna schiuderle lentamente
e lasciarle uscire con quel sapore
che sa d’infanzia e saggezza
per poi disperderle nel vento
in cerca di un nido di labbra
o di due occhi dove farle volare
stemperandosi nell'azzurro infinito.
 
Poesia, cavallo alato al galoppo
sul filo del sonno che conduce
nel riposo a placare un dolore
o a risvegliare sentimenti assopiti.
 
Una poesia, ovunque si possa lasciare
sul vetro appannato di una finestra
che lentamente si scioglie in lacrime
nel salutare un amore che s’allontana
o sulla sabbia della battigia
dove il mare legge  alle conchiglie.
 
Alla  deriva solcata da pescherecci
di marinai senza paura
che catturano nelle maglie delle reti
mentre gabbiani astuti attendono
per rubare tra becco ed ali
e veloci portano fino ai confini
di uno spazio che accoglie
e confonde con la luce della luna
per essere ammirate e seguite
sulla rotta di polvere di stelle.
 

   
  Sergio Saracchini
  Quattro8bre2mila20

 

domenica 27 settembre 2020

Rose

 Rose

 

Si fa sera sul finire

di un umido settembre

dove in me il ricordo

soffia quietamente

dietro ai vellutati

rossi petali di rose

che carezzano il viso.

Mentre mi perdo

nei tuoi occhi calmi

scorrono e si stemperano

i colori di un’infanzia

che conosceva solamente

le nostre primavere

e l’estate dei nostri anni

che sembravano non terminare.

Ti carezzo nel nostro sguardo muto

anche se il tempo si è fermato

queste rose che oggi t’ho regalato

sbocceranno ogni giorno

in una distanza sempre più vicina.

 

Sergio Saracchini 28/09/2020

 

 

 

 

sabato 19 settembre 2020

Immagine di settembre

 

 

Immagine di settembre

 

Il pensiero occupa quel dipinto

che lo ha voluto ritrarre seduto

sulla poltrona comoda negli anni

le mani intrecciate sul petto

nel silenzio del respiro calmo.

Nella mente sua girano concetti

calcoli che sfidano la regola dettata

riportati su un pezzo di carta

sgualcito da numeri scritti

da un mozzicone di matita

di graffite appuntita e forte.

Di una antica ed unica intelligenza

mi affido a questo anziano

che sgomina bande di paure

e fa inalare il profumo inteso

di un coraggio che risale

dalle origini sacre e forti

che non conosce addii

e segna il miglior tempo

di una vita che non si ferma

in un mese di nascita e morte

come settembre di sole e pioggia.

 

Sergio Saracchini

20/09/2020

 

domenica 13 settembre 2020

Smarrimento

 
Smarrimento
 
È uno smarrimento
cogliere quell'attimo
dove tutto appare
immensamente amico
 
l’aria, i fiori, gli insetti
tutto risuona chiaro
e le parole del fiume odo
pronunciare un mormorio
 
si siedono i miei occhi
stanchi della monotonia
e carezzano questo mondo
che cammina nel sole
 
e perdo le parole
lascio parlare questi
che non conoscono ira,
ignoranza, paura e dolore
 
mi sento piccolo e inerme
di fronte al quotidiano
mentre mi avvolge
il puerile smarrimento.
 
Sergio Saracchini 14/09/2020
ilcalamaiodelcuore

 

sabato 5 settembre 2020

PANE

 

PANE
 
Ne ho un ricordo
del profumo sano
di un forno caldo
dove farina bianca
era veste del luogo
e del pane sfornato
croccante sotto i denti
e non salato il sapore
conservo ancora cara
la tradizione e origine.
 
Pomodoro e basilico
facevan compagnia
alla fetta abbrustolita
sotto un lenzuolo
d’olio forte e genuino
tempestato da piccoli
diamanti di sale
e ancor mentuccia e origano
il gusto ne esaltavano
il palato a piacimento. 

In quel piatto sbeccato
di porcellana antica
e tempo remoto
un povero pasto giaceva
condito d’esperienza
e saggia cucina.
 
Ricetta d’altri tempi
quell'impasto unico
che lievita la mente
sfornando quei ricordi
pronti a sfamare
generazioni postere.
 
                    ***
 
         Sergio Saracchini
seisettembreduemilaeventi
      IlCalamaioDelCuore
 

domenica 30 agosto 2020

Velocemente

 

Velocemente

 

Ed il vento si gonfia

nell'euforia di nubi

che muovono veloci

tra l’ali di rondini

che sfidano impavide

con il loro volo

tagliente e nero

l’ira del tempo

sgretolando i fiori

in un turbinio di petali

mentre correnti fuggevoli

scompigliano chiome

e tempesta insistente

di pensieri ossessivi

s’addensano in vortici

che attanagliano menti

su lividi provocati

da eventi fuori controllo

nello scontro frontale

con un cuore che non riposa.


- Sergio Saracchini -