giovedì 7 marzo 2024

In piedi, Signori, davanti ad una Donna

 

In piedi, Signori, davanti ad una Donna

 

La raccolsi lungo una strada in salita e tortuosa. Cocci di lei erano sparsi alle sue spalle. Fragile, troppo fragile per proseguire il suo cammino da sola. Prestando molta cura e attenzione recuperai anche i più piccoli frammenti e tentai di ricomporli facendo ricombaciare ogni dettaglio. Ci riuscii, impiegando molto tempo e con tanta pazienza. Un minino urto e tutto si sarebbe nuovamente sgretolato, questa volta irrimediabilmente. Un lavoro durato anni, dove i segni lasciati richiesero molto impegno per non farli notare e soprattutto per cancellarli, definitivamente, dalle pagine sgualcite del libro della sua vita. Pagine scritte con un inchiostro di sangue. Nonostante siano trascorsi diversi anni ancora bruciano quelle cinque dita sul suo volto, un volto che ha conosciuto più schiaffi che carezze, più pugni che baci, un volto tracciato dal sale delle lacrime che andava a mischiarsi con rivoli di sangue dalle ferite. Insulti, urla, imprecazioni, bestemmie, facevano male dentro, laceravano la dignità dell’Essere Donna.  L’avevo raccolta come una foglia d’autunno, stropicciata e calpestata. Mentre le vie del centro, nel tardo pomeriggio di un sabato, erano gremite di persone, io passeggiavo tra gli alberi spogli e desolati del grande parco cittadino. Al rumore del ghiaino sotto le mie scarpe si aggiunse lo scricchiolio di foglie e rami secchi, mentre un gracchiare di corvi completava questa sorta di mesta marcia funebre. L’imbrunire mi fece capire l’imminente chiusura del parco. Affrettai il passo, l’atmosfera mi rendeva nervoso e inquieto. In lontananza scorsi il grande cancello ma un altro rumore, non autunnale e a quell’ora, mi fece rallentare. Singhiozzi, provenienti da una panchina adiacente all’uscita e posta in punto particolarmente buio e coperto da una piccola siepe, mi fecero bloccare istantaneamente. Estrassi dalla tasca interna della giacca il cellulare e con la luce della torcia mi feci strada. Qualcuno rannicchiato sulla panchina stava piangendo. Avvicinandomi con molta cautela scorsi una sagoma. Non era piccola e non adduceva ad essere una bimba. Raggomitolata, una donna. Il fascio di luce le illumino il viso facendole brillare grosse lacrime. Gli occhi, due immensi laghi azzurri, erano carichi di terrore ed emanavano un senso di vergogna con l’abbassarsi delle palpebre. Mi avvicinai ulteriormente. Resomi conto della situazione le domandi se avesse bisogno di aiuto. Quello fu il momento in cui lei incominciò a capire che non esistono solo uomini scassinatori di un corpo, predatori di sentimenti, usurpatori di libertà. Ero in auto e mentre percorrevo la strada, per giungere a casa sua, il mio sguardo venne attratto dalle nuvole in cielo. Erano nuvole bianche con sfumature rosa, soffici e delicate, ricordavano volti e profili di donne che galleggiavano in un immenso mare azzurro. Si sentivano al sicuro in quel letto di serenità. Accanto a loro altre piccole nuvole sembravano figlie che si tenevano strette alle madri, legate da un bianco e morbido cordone ombelicale di zucchero filato. D’improvviso un vento cattivo incominciò a schiaffeggiarle, lampi e fulmini a trafiggerle. Grosse gocce caddero sul mio parabrezza. Dopo pochi minuti il cielo si rischiarì, l’azzurro riaccolse dentro di sé quei volti delicati, quelle grazie di sublime armonia. Era solo un naturale temporale estivo nel cielo. Sulla terra, nelle case, tra i muri di una stanza, quante brezze si tramutano in venti forti, poi burrasche, tempeste e in fine in uragani distruttori. Sulla terra, nelle case, tra i muri di una stanza, le nuvole non tornano più. Sulla terra, quante nuvole bianche diventano croci di marmo. Sulla terra un nome e due date. Era trascorso del tempo da quel nostro primo incontro e altri ne seguirono. Ben presto diventò più che un’amicizia.  Parcheggiai l’auto in un posto adiacente al giardino di casa. Costeggiando a piedi un roseto ne presi un fiore. Mi vide dalla finestra e si precipitò ad aprirmi la porta. Mi presentai porgendole quella rosa. Ci baciammo. Del suo passato faceva fatica a parlarne, ogni tanto la spingevo a farlo con la convinzione, e forse presunzione, di esorcizzare quel trauma. Tutto inutile. Non ero uno psichiatra, uno psicologo, un analista, ero solo un uomo che aveva capito e voleva aiutarla amandola.  Lo aveva perdonato molte volte, anche troppe. I buoni propositi si sprecavano, i pentimenti su quelle reazioni violente erano sempre seguiti da promesse mai mantenute. Schiaffi, finte carezze, baci di Giuda, si alternavano sul suo volto. Sperava nel pensiero positivo, che quell’uomo si pentisse con convinzione e sarebbe cambiato. Ma non fu mai così. La voce incominciò a tremare, un pianto improvviso ruppe il racconto.  I singhiozzi presero il posto delle parole. Si rifugiò tra le mie braccia e posando il capo sul mio petto, sentii il suo respiro ridiventare regolare. Gli occhi si chiusero, si addormentò lasciando che il sonno prendesse il posto di quell’incubo. La presi in braccio e la adagiai dolcemente sul letto in camera. Prima di chiudere la porta la osservai, sembrava il riposo di una bimba dopo una ninna nanna. Come tante donne riuscì a scappare di casa, per un periodo venne ospitata da  un’amica, quindi in una casa rifugio a un indirizzo segreto, ma che segreto rimase per poco. Tramite qualche informatore lui riuscì a scoprire dove era alloggiata. Il cliché sempre lo stesso. La attese una sera al suo rientro. Bloccandole l’ingresso la prese con forza, caricata in auto la riportò a casa. Un nuovo e lungo capitolo di violenza si aprì. Quell’uomo si era insinuato in lei a tal punto da farle crede che solo lui poteva organizzare la sua vita, constatato che era letteralmente incapace di badare a se stessa.  Poi la seconda fuga, quella definitiva, in quella sera che la trovai piangente sulla panchina del parco. La riportai in un’altra casa alloggio, rimase per alcuni mesi. Mi fu dato il permesso di andarla a trovare di tanto in tanto. Le visite si fecero sempre più frequenti, fino a quando ci innamorammo. Doveva ricominciare a fidarsi, ad uscire da quell’isolamento che la paura le aveva imposto. La convinsi a denunciare quell’uomo prima che potesse farle ancora del male. Impiegai molto tempo, ma alla fine ci riuscii. Un viaggio nel fare giustizia non semplice da intraprendere. Ci affidammo ad una avvocata che stilò una memoria sui fatti accaduti da presentare al giudice. Venne riportato tutto. Ogni singolo particolare ed evento. Tutta la violenza subita che la faceva sentire una nullità, colpevole di essere la causa della rabbia di quell’uomo. Maltrattamenti, i soldi pretesi per andare ad ubriacarsi o giocarli, la casa distrutta durante gli eccessi d’ira. La propria autostima calpestata a tal punto di convincersi d’essere una fallita, di non valere assolutamente nulla. Un burattino attaccato a dei fili manovrati da un Mangiafuoco. Un piccolo appartamento in affitto e un lavoro come segretaria, presso uno studio di professionisti, le permisero di vivere dignitosamente. Un giorno mi chiese di accompagnarla al cimitero dove erano sepolti i suoi genitori, scomparsi, a poca distanza di tempo uno dall’altra, quando lei era ancora piccola. Di fronte alle due lapidi incominciò a parlare di lei, del suo passato. Sembrava che le immagini dei genitori l’avessero invitata ad aprirsi con me. “Se fossero vivi non sarebbe successo tutto questo, ma in questa mia sfortunata storia di vita ti ho incontrato, raccogliendomi ferita su quella panchina.  Dopo la morte dei miei si sono presi cura di me due zii senza figli, dandomi il meglio come educazione, istruzione e amore. Vissi con loro fino a quando incominciai a frequentare l’università, poi un altro macigno mi cadde addosso, un incidente automobilistico dove morirono lasciandomi sola. Abbandonata l’università mi trovai un lavoro e sulla mia strada incrociai un ragazzo, quel ragazzo, divenuto mio marito quindi, un po’ alla volta, il mio aguzzino. Un matrimonio iniziato bene, sfociato poi in pura violenza. Lui, un tipo apparentemente tranquillo. Poi l’alcool, le scommesse, il gioco d’azzardo. Si ubriacava quasi ogni sera, tornava a casa e si sfogava su di me. Venne licenziato dal posto di lavoro per quel carattere divenuto aggressivo, tentò di sbarcare il lunario in altri posti, tutti finti con rimproveri, quindi licenziamenti. Alla fine rinunciò a trovarsi un’occupazione, costringendomi ad andare a lavorare e a consegnarli tutto lo stipendio. Un lavoro come commessa, poi addetta alle pulizie di condomini.  Il resto lo conosci.  Proprio di fronte a quei due volti nel freddo marmo di una lapide, le chiesi di sposarmi. Scelsi quel momento e quel luogo nel chiedere, a quelle due dolci immagini, la mano della loro figlia.  Mi guardò, gli occhi si inumidirono, dalla sua bocca speravo uscisse un si, come se già fossimo su un altare, ma  lei non si sentiva ancora pronta, l’esperienza del primo matrimonio, così tragico e violento, non la portò ancora a compiere quel passo. Non volevo lasciarla sola neppure un attimo, la mia vita insieme a lei era un desiderio immenso. Poi, a seguito di piacevoli  incontri con altre coppie di amici tutte sposate, fu lei a compiere il primo passo. Una sera, in una di quelle occasioni e mentre la stavo riportando a casa, mi chiese di accostare l’auto.  Spensi il motore. Tirò fuori dalla borsetta il portafogli e da una taschina estrasse una foto. Ritraeva i suoi genitori il giorno delle loro nozze. Di fronte a quelle due immagini, nella penombra dell’abitacolo, mi chiese di andare a vivere con lei. Un altro piccolo passo, su una strada lunga e in salita, era stato compiuto. Forse, un percorso più pianeggiante, da condividere insieme, era stato intrapreso. Trovammo un appartamento più grande e l’idea di mettere su famiglia ci portava a sognare. Il caso volle che lo trovammo in uno stabile poco distante dal centro, adiacente a quel parco. Dalla finestra del salotto lo si poteva vedere, come si poteva scorgere quella panchina. Cercai di avvicinami a lei e nello stesso momento il suo corpo irrigidendosi  e ritraendosi incominciò a tremare. La prima notte la trascorremmo in silenzio, distesi nel grande letto, lei appoggiò il capo sul mio petto, il respiro era regolare, il suo parlare non venne interrotto da singhiozzi.  Una sera, rincasando sul tardi, notai un’auto parcheggiata nel mio posto auto condominiale. Scesi e notando qualcuno seduto a posto di guida mi avvicinai. Bussai al finestrino. Di scatto la portiera si aprì facendomi quasi perdere l’equilibrio. Scese un uomo, robusto, trasandato, barba incolta. Mi prese per il bavero e mi spinse contro il muro che delimitava il parcheggio. Incominciò a parlare in maniera impastata, il suo alito sapeva di alcool. Non lo conoscevo, capii chi era dalle poche parole che mi investirono, condite da parolacce, insulti, bestemmie. Era lui. Mi minacciò con la promessa che prima o poi ci avrebbe ammazzati. Non proferii parola. Inchiodato alla parete scorsi al suo polso un braccialetto. Era uno di quelli imposto dal giudice nel prescrivere all’autore di un reato di non avvicinarsi a luoghi determinati e di  mantenere una certa distanza dalla persona offesa. Mollato il bavero risalì in auto allontanandosi a gran velocità e di tanto in tanto sbandando. Entrato a casa mi corse incontro. I due grandi laghi azzurri mi fissarono, avrei voluto tuffarmi e perdermi nella loro dolcezza. Mi passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Aveva capito ma non disse nulla, avevo rispetto e non dissi nulla. Trovò un lavoro part-time che le permetteva di fare mezza giornata e rincasare, anche d’inverno, con la luce. Il mio invece mi costringeva a protrarre l’orario  oltre il normale e il tragico incontro di quella sera mi segnò e non poco. Una volta giunto nei pressi del parcheggio, e prima di uscire dall’abitacolo, mi guardavo attorno sincerandomi di non scorgere quell’auto. Dopo quella parentesi i giorni passavano serenamente nella loro routine. Una progressione nel lavoro mi collocò in un ruolo di ispettore nel mio settore, questo, oltre a godere di un aumento economico, mi costringeva  a continui spostamenti che non mi permettevano il ritorno a casa alla sera. Lasciarla sola per qualche giorno mi destava qualche preoccupazione e pensiero. Invece fu proprio lei a rassicurarmi, invitandomi a non temere  nulla, il suo lavoro, la cerchia di amici, la nostra casa la facevano stare tranquilla. In occasione delle mie trasferte e come d’abitudine, prima di prendere sonno, ci messaggiavamo. Brevi messaggi. Come stai, come hai trascorso la giornata, hai sentito qualcuno, cosa hai fatto nel pomeriggio dopo il lavoro. Quella sera rientrato in Hotel, fatta una doccia e distesomi sul letto, presi il cellulare, nessun suo messaggio. Incominciai a scriverle. Un messaggio, due, tre, quattro. Le doppie spunte rimanevano grigie. Il colore azzurro, come i suoi occhi, non compariva. Le telefonai. Squilli a vuoto, ripetuti all’infinito e poi la segreteria telefonica. Lasciai diversi vocali. Nulla. Chiamai i miei amici, forse avevano avuto modo di vederla o sentirla. Nessuno sapeva darmi notizie. Quella notte non presi sonno, solo un dormiveglia con gli occhi puntati sullo schermo del cellulare, nessuna notifica, nessuna telefonata, le spunte rimasero grigie. La mattina seguente dovetti disdire l’ultimo incontro di lavoro e anticipai il ritorno con il primo aereo disponibile. Rincasai, l’appartamento vuoto,  la polvere aveva coperto i mobili, il letto disfatto, i piatti sporchi nel lavandino. Presi un bicchiere e lo riempii di whisky fino quasi all’orlo, lo buttai giù tutto d’un fiato e mi accesi una sigaretta. Poi uscii. Chiusi la porta sbattendola alle mie spalle senza alcuna mandata. Era sabato, tardo pomeriggio,  mi incamminai verso il grande parco. Ancora, come quella volta, al rumore del ghiaino sotto le mie scarpe si aggiunse lo scricchiolio di foglie e rami secchi, mentre un gracchiare di corvi completava questa sorta di mesta marcia funebre. Andai direttamente dietro la siepe e mi sedetti su quella panchina. Ci rimasi fino a quando l’addetto alla chiusura del parco si accorse di me invitandomi, con garbo, ad uscire. Vide il mio volto e mi chiese se stavo bene e se avessi avuto bisogno di aiuto. Con un cenno della mano ringraziai allontanandomi. Camminai molto, era ancora aperto ed entrai.  Giunsi dove il silenzio dialoga con i nomi. Mi avvicinai alla lapide dei suoi genitori. La loro espressione sembrava dire “ti aspettavamo”. Sottovoce, con il silenzio che oramai faceva parte della mia vita, gli chiesi perdono. Perdono per non aver fatto di più, perdono per non esserle stato più vicino, perdono per non essere riuscito a fermare in tempo quell’uomo che le aveva reso la vita un infermo e ora me l’aveva portata via per sempre.  Poche righe  di William Shakespeare incise su un marmo bianco:

 

Per tutte le violenze consumate su di lei,
per tutte le 
umiliazioni che ha subito,
per il suo corpo che avete 
sfruttato,
per la sua 
intelligenza che avete calpestato,
per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,
per la libertà che le avete negato,
per la 
bocca che le avete tappato,
per le sue ali che avete tarpato,
per tutto questo:
in piedi, signori, davanti ad una 
Donna!”

 

Il suo volto era lì, su una lapide accanto ai suoi genitori e sembrava dirmi… mi vuoi sposare?


Sergio Saracchini

domenica 3 marzo 2024

IL CANTO DEL GALLO

 
IL CANTO DEL GALLO
 

Lo sento ancora

il chicchirichì del gallo

ma non è quello di una volta

quando mi svegliava

nelle ore mattutine

e il tempo era lungo

come il respiro degli anni

che sembravano non passare mai

lasciandomi fantasticare

con un paio di sandaletti

i calzoni corti e il sapore

della gommosa liquirizia.

Lo sento ancora e sono io

tra le ore della sera

che passano veloci

lasciandomi il tempo

di un pensiero unico.

 
Sergio Saracchini