In
piedi, Signori, davanti ad una Donna
La
raccolsi lungo una strada in salita e tortuosa. Cocci di lei erano sparsi alle
sue spalle. Fragile, troppo fragile per proseguire il suo cammino da sola.
Prestando molta cura e attenzione recuperai anche i più piccoli frammenti e
tentai di ricomporli facendo ricombaciare ogni dettaglio. Ci riuscii,
impiegando molto tempo e con tanta pazienza. Un minino urto e tutto si sarebbe
nuovamente sgretolato, questa volta irrimediabilmente. Un lavoro durato anni,
dove i segni lasciati richiesero molto impegno per non farli notare e soprattutto
per cancellarli, definitivamente, dalle pagine sgualcite del libro della sua
vita. Pagine scritte con un inchiostro di sangue. Nonostante siano trascorsi
diversi anni ancora bruciano quelle cinque dita sul suo volto, un volto che ha
conosciuto più schiaffi che carezze, più pugni che baci, un volto tracciato dal
sale delle lacrime che andava a mischiarsi con rivoli di sangue dalle ferite.
Insulti, urla, imprecazioni, bestemmie, facevano male dentro, laceravano la
dignità dell’Essere Donna. L’avevo
raccolta come una foglia d’autunno, stropicciata e calpestata. Mentre le vie
del centro, nel tardo pomeriggio di un sabato, erano gremite di persone, io passeggiavo
tra gli alberi spogli e desolati del grande parco cittadino. Al rumore del
ghiaino sotto le mie scarpe si aggiunse lo scricchiolio di foglie e rami
secchi, mentre un gracchiare di corvi completava questa sorta di mesta marcia
funebre. L’imbrunire mi fece capire l’imminente chiusura del parco. Affrettai
il passo, l’atmosfera mi rendeva nervoso e inquieto. In lontananza scorsi il
grande cancello ma un altro rumore, non autunnale e a quell’ora, mi fece
rallentare. Singhiozzi, provenienti da una panchina adiacente all’uscita e
posta in punto particolarmente buio e coperto da una piccola siepe, mi fecero
bloccare istantaneamente. Estrassi dalla tasca interna della giacca il
cellulare e con la luce della torcia mi feci strada. Qualcuno rannicchiato
sulla panchina stava piangendo. Avvicinandomi con molta cautela scorsi una
sagoma. Non era piccola e non adduceva ad essere una bimba. Raggomitolata, una
donna. Il fascio di luce le illumino il viso facendole brillare grosse lacrime.
Gli occhi, due immensi laghi azzurri, erano carichi di terrore ed emanavano un
senso di vergogna con l’abbassarsi delle palpebre. Mi avvicinai ulteriormente.
Resomi conto della situazione le domandi se avesse bisogno di aiuto. Quello fu
il momento in cui lei incominciò a capire che non esistono solo uomini
scassinatori di un corpo, predatori di sentimenti, usurpatori di libertà. Ero
in auto e mentre percorrevo la strada, per giungere a casa sua, il mio sguardo
venne attratto dalle nuvole in cielo. Erano nuvole bianche con sfumature rosa,
soffici e delicate, ricordavano volti e profili di donne che galleggiavano in
un immenso mare azzurro. Si sentivano al sicuro in quel letto di serenità. Accanto
a loro altre piccole nuvole sembravano figlie che si tenevano strette alle
madri, legate da un bianco e morbido cordone ombelicale di zucchero filato. D’improvviso
un vento cattivo incominciò a schiaffeggiarle, lampi e fulmini a trafiggerle.
Grosse gocce caddero sul mio parabrezza. Dopo pochi minuti il cielo si rischiarì,
l’azzurro riaccolse dentro di sé quei volti delicati, quelle grazie di sublime armonia.
Era solo un naturale temporale estivo nel cielo. Sulla terra, nelle case, tra i
muri di una stanza, quante brezze si tramutano in venti forti, poi burrasche, tempeste
e in fine in uragani distruttori. Sulla terra, nelle case, tra i muri di una
stanza, le nuvole non tornano più. Sulla terra, quante nuvole bianche diventano
croci di marmo. Sulla terra un nome e due date. Era trascorso del tempo da quel
nostro primo incontro e altri ne seguirono. Ben presto diventò più che
un’amicizia. Parcheggiai l’auto in un posto
adiacente al giardino di casa. Costeggiando a piedi un roseto ne presi un
fiore. Mi vide dalla finestra e si precipitò ad aprirmi la porta. Mi presentai
porgendole quella rosa. Ci baciammo. Del suo passato faceva fatica a parlarne, ogni
tanto la spingevo a farlo con la convinzione, e forse presunzione, di
esorcizzare quel trauma. Tutto inutile. Non ero uno psichiatra, uno psicologo,
un analista, ero solo un uomo che aveva capito e voleva aiutarla amandola. Lo aveva perdonato molte volte, anche troppe.
I buoni propositi si sprecavano, i pentimenti su quelle reazioni violente erano
sempre seguiti da promesse mai mantenute. Schiaffi, finte carezze, baci di
Giuda, si alternavano sul suo volto. Sperava nel pensiero positivo, che
quell’uomo si pentisse con convinzione e sarebbe cambiato. Ma non fu mai così.
La voce incominciò a tremare, un pianto improvviso ruppe il racconto. I singhiozzi presero il posto delle parole.
Si rifugiò tra le mie braccia e posando il capo sul mio petto, sentii il suo respiro
ridiventare regolare. Gli occhi si chiusero, si addormentò lasciando che il
sonno prendesse il posto di quell’incubo. La presi in braccio e la adagiai
dolcemente sul letto in camera. Prima di chiudere la porta la osservai,
sembrava il riposo di una bimba dopo una ninna nanna.
Come tante donne riuscì a scappare di casa, per un periodo venne ospitata
da un’amica, quindi in una casa rifugio
a un indirizzo segreto, ma che segreto rimase per poco. Tramite qualche informatore
lui riuscì a scoprire dove era alloggiata. Il cliché sempre lo stesso. La attese una sera al suo rientro.
Bloccandole l’ingresso la prese con forza, caricata in auto la riportò a casa.
Un nuovo e lungo capitolo di violenza si aprì. Quell’uomo si era insinuato in
lei a tal punto da farle crede che solo lui poteva organizzare la sua vita,
constatato che era letteralmente incapace di badare a se stessa. Poi la seconda fuga, quella definitiva, in quella
sera che la trovai piangente sulla panchina del parco. La riportai in un’altra
casa alloggio, rimase per alcuni mesi. Mi fu dato il permesso di andarla a
trovare di tanto in tanto. Le visite si fecero sempre più frequenti, fino a
quando ci innamorammo. Doveva ricominciare a fidarsi, ad uscire da
quell’isolamento che la paura le aveva imposto. La convinsi a denunciare
quell’uomo prima che potesse farle ancora del male. Impiegai molto tempo, ma
alla fine ci riuscii. Un viaggio nel fare giustizia non semplice da
intraprendere. Ci affidammo ad una avvocata che stilò una memoria sui fatti
accaduti da presentare al giudice. Venne riportato tutto. Ogni singolo
particolare ed evento. Tutta la violenza subita che la faceva sentire una
nullità, colpevole di essere la causa della rabbia di quell’uomo.
Maltrattamenti, i soldi pretesi per andare ad ubriacarsi o giocarli, la casa
distrutta durante gli eccessi d’ira. La propria autostima calpestata a tal
punto di convincersi d’essere una fallita, di non valere assolutamente nulla.
Un burattino attaccato a dei fili manovrati da un Mangiafuoco. Un piccolo appartamento
in affitto e un lavoro come segretaria, presso uno studio di professionisti, le
permisero di vivere dignitosamente. Un giorno mi chiese di accompagnarla al
cimitero dove erano sepolti i suoi genitori, scomparsi, a poca distanza di
tempo uno dall’altra, quando lei era ancora piccola. Di fronte alle due lapidi
incominciò a parlare di lei, del suo passato. Sembrava che le immagini dei
genitori l’avessero invitata ad aprirsi con me. “Se fossero vivi non sarebbe successo tutto questo, ma in questa mia
sfortunata storia di vita ti ho incontrato, raccogliendomi ferita su quella
panchina. Dopo la morte dei miei si sono presi cura di me due zii senza figli,
dandomi il meglio come educazione, istruzione e amore. Vissi con loro fino a
quando incominciai a frequentare l’università, poi un altro macigno mi cadde
addosso, un incidente automobilistico dove morirono lasciandomi sola.
Abbandonata l’università mi trovai un lavoro e sulla mia strada incrociai un
ragazzo, quel ragazzo, divenuto mio marito quindi, un po’ alla volta, il mio aguzzino.
Un matrimonio iniziato bene, sfociato poi in pura violenza. Lui, un tipo
apparentemente tranquillo. Poi l’alcool,
le scommesse, il gioco d’azzardo. Si ubriacava quasi ogni sera, tornava a casa
e si sfogava su di me. Venne licenziato
dal posto di lavoro per quel carattere divenuto aggressivo, tentò di sbarcare
il lunario in altri posti, tutti finti con rimproveri, quindi licenziamenti.
Alla fine rinunciò a trovarsi un’occupazione,
costringendomi ad andare a lavorare e a consegnarli tutto lo stipendio. Un
lavoro come commessa, poi addetta alle pulizie di condomini. Il resto lo conosci. Proprio di fronte a quei due volti nel
freddo marmo di una lapide, le chiesi di sposarmi. Scelsi quel momento e quel
luogo nel chiedere, a quelle due dolci immagini, la mano della loro figlia. Mi guardò, gli occhi si inumidirono, dalla
sua bocca speravo uscisse un si, come se già fossimo su un altare, ma lei non si sentiva ancora pronta, l’esperienza
del primo matrimonio, così tragico e violento, non la portò ancora a compiere
quel passo. Non volevo lasciarla sola neppure un attimo, la mia vita insieme a lei
era un desiderio immenso. Poi, a seguito di piacevoli incontri con altre coppie di amici tutte
sposate, fu lei a compiere il primo passo. Una sera, in una di quelle occasioni
e mentre la stavo riportando a casa, mi chiese di accostare l’auto. Spensi il motore. Tirò fuori dalla borsetta
il portafogli e da una taschina estrasse una foto. Ritraeva i suoi genitori il
giorno delle loro nozze. Di fronte a quelle due immagini, nella penombra
dell’abitacolo, mi chiese di andare a vivere con lei. Un altro piccolo passo,
su una strada lunga e in salita, era stato compiuto. Forse, un percorso più
pianeggiante, da condividere insieme, era stato intrapreso. Trovammo un
appartamento più grande e l’idea di mettere su famiglia ci portava a sognare.
Il caso volle che lo trovammo in uno stabile poco distante dal centro,
adiacente a quel parco. Dalla finestra del salotto lo si poteva vedere, come si
poteva scorgere quella panchina. Cercai di avvicinami a lei e nello stesso
momento il suo corpo irrigidendosi e
ritraendosi incominciò a tremare. La prima notte la trascorremmo in silenzio,
distesi nel grande letto, lei appoggiò il capo sul mio petto, il respiro era
regolare, il suo parlare non venne interrotto da singhiozzi. Una sera, rincasando sul tardi, notai un’auto
parcheggiata nel mio posto auto condominiale. Scesi e notando qualcuno seduto a
posto di guida mi avvicinai. Bussai al finestrino. Di scatto la portiera si
aprì facendomi quasi perdere l’equilibrio. Scese un uomo, robusto, trasandato,
barba incolta. Mi prese per il bavero e mi spinse contro il muro che delimitava
il parcheggio. Incominciò a parlare in maniera impastata, il suo alito sapeva
di alcool. Non lo conoscevo, capii chi era dalle poche parole che mi investirono,
condite da parolacce, insulti, bestemmie. Era lui. Mi minacciò con la promessa
che prima o poi ci avrebbe ammazzati. Non proferii parola. Inchiodato alla
parete scorsi al suo polso un braccialetto. Era uno di quelli imposto dal
giudice nel prescrivere all’autore di un reato
di non avvicinarsi a luoghi determinati e di mantenere una certa distanza dalla persona
offesa. Mollato il bavero risalì in auto allontanandosi a gran velocità e di
tanto in tanto sbandando. Entrato a casa mi corse incontro. I due grandi laghi
azzurri mi fissarono, avrei voluto tuffarmi e perdermi nella loro dolcezza. Mi
passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Aveva capito ma non disse
nulla, avevo rispetto e non dissi nulla. Trovò un lavoro part-time che le
permetteva di fare mezza giornata e rincasare, anche d’inverno, con la luce. Il
mio invece mi costringeva a protrarre l’orario oltre il normale e il tragico incontro di
quella sera mi segnò e non poco. Una volta giunto nei pressi del parcheggio, e
prima di uscire dall’abitacolo, mi guardavo attorno sincerandomi di non
scorgere quell’auto. Dopo quella parentesi i giorni passavano serenamente nella
loro routine. Una progressione nel lavoro mi collocò in un ruolo di ispettore
nel mio settore, questo, oltre a godere di un aumento economico, mi costringeva
a continui spostamenti che non mi
permettevano il ritorno a casa alla sera. Lasciarla sola per qualche giorno mi
destava qualche preoccupazione e pensiero. Invece fu proprio lei a
rassicurarmi, invitandomi a non temere
nulla, il suo lavoro, la cerchia di amici, la nostra casa la facevano
stare tranquilla. In occasione delle mie trasferte e come d’abitudine, prima di
prendere sonno, ci messaggiavamo. Brevi messaggi. Come stai, come hai trascorso la giornata, hai sentito qualcuno, cosa
hai fatto nel pomeriggio dopo il lavoro. Quella sera rientrato in Hotel,
fatta una doccia e distesomi sul letto, presi il cellulare, nessun suo
messaggio. Incominciai a scriverle. Un messaggio, due, tre, quattro. Le doppie
spunte rimanevano grigie. Il colore azzurro, come i suoi occhi, non compariva.
Le telefonai. Squilli a vuoto, ripetuti all’infinito e poi la segreteria
telefonica. Lasciai diversi vocali. Nulla. Chiamai i miei amici, forse avevano
avuto modo di vederla o sentirla. Nessuno sapeva darmi notizie. Quella notte
non presi sonno, solo un dormiveglia con gli occhi puntati sullo schermo del
cellulare, nessuna notifica, nessuna telefonata, le spunte rimasero grigie. La
mattina seguente dovetti disdire l’ultimo incontro di lavoro e anticipai il
ritorno con il primo aereo disponibile. Rincasai, l’appartamento vuoto, la polvere aveva coperto i mobili, il letto
disfatto, i piatti sporchi nel lavandino. Presi un bicchiere e lo riempii di whisky
fino quasi all’orlo, lo buttai giù tutto d’un fiato e mi accesi una sigaretta. Poi
uscii. Chiusi la porta sbattendola alle mie spalle senza alcuna mandata. Era
sabato, tardo pomeriggio, mi incamminai
verso il grande parco. Ancora, come quella volta, al rumore del ghiaino
sotto le mie scarpe si aggiunse lo scricchiolio di foglie e rami secchi, mentre
un gracchiare di corvi completava questa sorta di mesta marcia funebre. Andai
direttamente dietro la siepe e mi sedetti su quella panchina. Ci rimasi fino a
quando l’addetto alla chiusura del parco si accorse di me invitandomi, con
garbo, ad uscire. Vide il mio volto e mi chiese se stavo bene e se avessi avuto
bisogno di aiuto. Con un cenno della mano ringraziai allontanandomi. Camminai
molto, era ancora aperto ed entrai.
Giunsi dove il silenzio dialoga con i nomi. Mi avvicinai alla lapide dei
suoi genitori. La loro espressione sembrava dire “ti aspettavamo”. Sottovoce, con il silenzio che oramai faceva parte
della mia vita, gli chiesi perdono. Perdono per non aver fatto di più, perdono
per non esserle stato più vicino, perdono per non essere riuscito a fermare in
tempo quell’uomo che le aveva reso la vita un infermo e ora me l’aveva portata
via per sempre. Poche righe di William
Shakespeare incise su un marmo bianco:
Per tutte le violenze consumate su di lei,
per tutte le umiliazioni che ha subito,
per il suo corpo che avete sfruttato,
per la sua intelligenza che avete calpestato,
per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,
per la libertà che le avete negato,
per la bocca che le avete
tappato,
per le sue ali che avete tarpato,
per tutto questo:
in piedi, signori, davanti ad una Donna!”
Il
suo volto era lì, su una lapide accanto ai suoi genitori e sembrava dirmi… mi vuoi sposare?
Sergio Saracchini