domenica 14 gennaio 2024

Cocktail

 

Cocktail

 

Bevi dal bicchiere

colmo di labbra

dove il sapore sa

di rosa scarlatta

e la fetta d’un bacio

galleggia tra cubetti

di lacrime sciolte

dal calore delle mani.

 

Sergio Saracchini

Parole

 

Parole

 

Nascono nuvole

come zucchero filato

d’ingenua sincerità

su labbra di bambini.

 

Crescono dilatandosi

viaggiano ingrigendosi

copiose cadono su teste

di mari agitati.

 

Solo una zattera

raccoglie naufraghe

quelle capaci

d’essere salvagente.

 

 

Sergio Saracchini

LA DISPENSA

 

LA DISPENSA

 

Nella dispensa del petto

quel poco per saziare.

 

L’etichetta riporta

l’ultima scritta

…da consumarsi

preferibilmente

entro il…

 

Sergio Saracchini

I due baci

 


I due baci

 

Ho tatuato due baci

sui nomi incisi nel marmo

come i vostri

da sempre

sulle mie guance.

 

Sergio Saracchini

Il raccolto

 

Il raccolto

 

Mani fertili sull’arido capo

renderanno il raccolto

più ricco di maturi pensieri.

 

Sergio Saracchini

 

Trecce

 

Trecce


Trecce

funi robuste

d’altalena fanciulla

nel dondolio

tra cielo e terra

gli occhi si perdevano

dove gli uccelli

volavano con te

e lo scoiattolo

arrampicava

l’albero della vita.

 

Nei colori diluiti

ancora dondola l’altalena

dalle funi intrecciate d’argento.

 

Sergio Saracchini

 

domenica 7 gennaio 2024

Alcide l’impiegato

 Alcide l’impiegato

(Storia tragicomica da uno statico e patetico esistere 

a una inaspettata gloriosa ascesa)

Seduto su una sedia (spacciata per ergonomica), dotata di cinque rotelle di cui tre rotte;  uno schienale cigolante come l’apertura della bara del film “Dracula Il Vampiro”; un sedile dall’intelaiatura sfondata, a tal punto da poter sfidare un fachiro Indù di Varanasi (India) all’insensibilità al dolore; un rivestimento garantito, testato, di origine controllata in puro PVC, tant’è che d’estate i pantaloni, con vistosi aloni di sudore, suscitavano a chi lo osservava compassione per  una prematura incontinenza e la camicia, anch’essa madida di sudore, da fare invidia a quella di un “camallo”  portuale genovese; Alcide, in quell’ufficio, era l’impiegato. Quel nome, così storico e importante in Italia ma anche all’estero nel secondo dopo guerra, gli venne dato, in onore di quell’uomo politico, dai genitori la cui smisurata fede cristiana era fondamento e orientamento di vita. A chiudere il cerchio lo stesso nome, derivante dal greco “Alkeides”, il cui significato era robusto, di volontà prepotente, che non si tira mai indietro nelle lotte e sa farsi valere in ogni settore, cozzava con la sua personalità e carattere. La scrivania sembrava una discarica a cielo aperto. Oltre a essere cosparsa di plichi di pratiche concluse, in fieri, ancora da prendere in esame, di fogli sgualciti e accartocciati, era anche disseminata, come in un campo minato, di briciole, pezzetti di biscotti, involucri di caramelle, che facevano compagnia a cerchi crostificati di bevande, lasciati dalla base di bicchieri di carta, tanto da raffigurare, a volte, il simbolo dei giochi olimpici o, per similitudine, potevano ricordare medaglie d’oro, d’argento e di bronzo; oro il caffè, argento la camomilla, bronzo il tè. Striature indelebili di inchiostro rosso, blu, verde e nero, perso da biro economiche, potevano combinarsi in tricolori di bandiere che, con fervida immaginazione, sventolavano nei pochi spazi bianchi di una scrivania divenuta bolgia di uno stadio o meglio di una arena dove, anche in questa ipotesi, immaginari gladiatori di carta appallottolata se la contendevano per la sopravvivenza tra levapunti e cucitrici dalle fauci fameliche.  È da dire in tutta sincerità che, nonostante regnasse questa anarchia sul tavolo di lavoro, le sue mansioni le svolgeva in maniera egregia, senza accumulare ritardo, portando tutto a termine quanto gli venisse affidato, secondo conoscenza, stile e professionalità acquisiti dai tempi della scuola e dalle esperienze lavorative pregresse. Tutto questo in un ambiente sano e tranquillo, tutto questo fino a un cambio di dirigenza avvenuto presso la Società in cui Alcide lavorava da diversi anni.  Il passo secco e deciso di un paio di tacchi da donna soffocò prepotentemente, seppur a distanza, il brusio proveniente dagli uffici, così pure il freddo e frenetico battere su tastiere di computer e calcolatrici. Il suo profumo pungente, invadente, aggressivo, assaliva le vie aeree superiori con un odore simile al peggiore insetticida in commercio, un ottimo repellente per gli insetti ma anche per gli esseri umani sgraditi, e forse Alcide rientrava in questa specie di uomo-insetto. La donna entrò nella stanza e senza proferire parola inchiodò il suo sguardo in quello di Alcide. Uno spasmo gli attraversò l’addome, istantaneamente venne assalito da tachicardia, iperventilazione, bocca secca, ulteriore sudorazione (oltre a quella provocata dal PVC della sedia), per poi arrivare all’inevitabile contrazione dei muscoli del retto; una pagina di wikipedia su origini, cause e sintomi del colon irritabile era stata appena aperta (il capitolo dedicato alla cura non veniva mai preso in considerazione). Si avvicinò alla scrivania. Alcide rimase paralizzato, solo un lembo della bocca accennò un timido sorriso che ben presto venne soffocato dal ghigno beffardo di lei. Alcide sapeva cosa voleva, la relazione su quel lavoro affidatogli una settimana prima. Si alzò, come si sarebbe alzato un “kamikaze” nel salutare l’Imperatore prima di sacrificarsi, e con mano tremante, affetta da “iperidrosi” (eccessiva sudorazione delle mani) allungò il fascicolo che, con ripugno, venne afferrato. La donna, dal contemplare il fascicolo con aria di sufficienza, lanciò un ultimo sguardo negli occhi di Alcide, quindi si girò su i suoi tacchi da dodici centimetri di arroganza e lo lasciò in una nuvola avvolgente che ricordava il “wc net power activ ocean fresh”. Alcide rimasto fino a quel momento con la bocca aperta la chiuse, come si chiude nel cuore della notte un copri water, senza fare rumore. Quel lavoro lo aveva tenuto occupato non solo fino a tarda ora, ma anche a casa dove le innumerevoli carte che si portava dall’ufficio si confondevano con la paura di non riuscire a concluderlo nei tempi, e con l’ansia di affrontare il giudizio del ghigno pungente dalla “fragranza” di insetticida misto ad “aromi speziali” che solo nelle “ritirate” di alcuni vagoni ferroviari si ha occasione di allietare le “frogie”.  Alcide viveva solo e nella casa lasciata dai suoi genitori. Non aveva fratelli o sorelle, men che meno amicizie o una donna. La sua estrema timidezza lo portava a non riuscire ad allacciare rapporti col sesso opposto, da qui il passo fu breve a pettegolezzi, battute e frecciatine sul suo orientamento sessuale.  Alcide, sull’argomento, aveva una sua intima riflessione: “a volte la gente parla per camuffare le proprie diversità, qualunque esse siano, e poi se un uomo ama un altro uomo o una donna ama un’altra donna la cosa certo non renderà il mondo ancora più brutto di quello che è. Forse lo migliorerebbe (qui un grande dubbio, se concludere con un perentorio punto esclamativo o con un timido punto interrogativo). Una cosa è certa, dalla nascita non sappiamo chi vogliamo essere e come esserlo, solo vivendo sappiamo che abbiamo bisogno di amarci. In realtà di una donna si era innamorato, si chiamava Esmeralda come la protagonista femminile del romanzo “Notre-Dame de Paris” di “Victor Hugo”. Un amore non corrisposto, durato quasi un anno, dove Alcide, per i continui rifiuti e dinieghi a qualsiasi invito, ne sentiva il peso come un macigno da portare sulle spalle,  a tal punto  d’essersi autodiagnosticato una “ipercifosi” (volgarmente detta gobba) e avere magicamente cambiato il nome da Alcide in “Quasimodo”, il povero campanaro della stessa cattedrale “Notre-Dame”. L’infatuazione per Esmeralda svanì quando, in una tarda serata invernale, uscendo dal lavoro, scorse la ragazza in un bar in piacevole compagnia di un uomo. Era molto rapita da quell’individuo, il suo atteggiarsi dimostrava una forte attrazione, e loquacità e gestualità non davano spazio al compagno di quella serata che, in uno stato catatonico, non presentava segni emotivi e motori alle sollecitazioni logorroiche di Esmeralda. Alcide rivide quell’uomo diverse volte e sempre solo, l’espressione del suo viso era completamente diversa da quella prima volta che lo notò con Esmeralda.  Camminava con aria serena nel centro cittadino.  L’andatura pacata e la schiena ben eretta non davano segni di preoccupazione alcuna. Non presentava accenni di ingobbamenti dovuti a rifiuti e dinieghi tanto da pesare sulle spalle a tal punto che anche lui si autodiagnosticasse una “ipercifosi”. Una cosa fece capire che forse era riuscito in tempo, oltre a non autodiagnosticarsi una “ipercifosi”, a non autodiagnosticarsi un’“orchite” (volgarmente detta una…), la cui causa, forse, trovava riscontro nei fattori eziologici legati al nome di quel personaggio femminile del romanzo “Notre-Dame de Paris”. Le giornate lavorative, ma anche le sere e il fine settimana, erano scandite dal pensiero martellante sul risultato finale di quella relazione, questa molto importante per la Società in cui lavorava, ma soprattutto sulla possibilità di guadagnarsi la stima e la fiducia di quella donna. Riflessioni, quelle di Alcide, che lo portavano continuamente in una smisurata ricerca di uno stile di vita che migliorasse la sua condizione esistenziale, costellata purtroppo di fallimenti, la cui causa la rintracciava solo in sé stesso. Si sentiva un uomo vittima di una condanna a vita da perdente. La soluzione? mettersi in gioco, rischiare, osare, a volte attaccare e non subire, indipendentemente dal risultato finale. Ad Alcide questo mondo, questa società dove l’arrivismo e la frenesia del tagliare il traguardo per primi erano una prerogativa, toglievano il respiro, si sentiva afferrare da mani che lo costringevano a rimanere nelle ultime posizioni, perdendo così ogni sfida. Medaglie appuntate su una maglia, che lo riconoscevano unico rappresentate di quella categoria, erano macchie d’oro, d’argento e di bronzo, rispettivamente di caffè, camomilla e tè, le stesse dei cerchi olimpici presenti sulla scrivania. A queste si aggiungevano quelle salate degli occhi. Ed ecco un fisico da intimorire solo a guardarlo,  preso in prestito da Ivan Drago (sfidante russo in Rocky IV), con il mitico “ti spiezzo in due” risuonare come urlo di battaglia, con colpi in linea (diretti), ganci (hook) e montanti (uppercut), che venivano sferrati non da pugni, ma da un bocca che si poneva sul viso di un uomo che non aveva nulla a che fare con Ivan Drago, precisamente da una mente particolarmente arguta, dalla battuta dritta, sagace e pungente, capace di assestare complicati concetti con poche parole e ragionamenti sulla filosofia di vita, tanto da mandare a KO chi osava importunarlo. Praticamente una testa, una mente, quella di un altro politico (detentore di una gobba non causata da Esmeralda e custodita come uno scrigno carico di segreti e amico di quel primo e famoso Alcide) sul corpo di Ivan Drago, un insieme di intelligenza e di forza, “intelligentia et viribus” dicevano i latini. Tutto questo pateticamente immaginato e vissuto, in una illusoria realtà, nei pochi metri della stanza da letto della sua casa dove, dopo un primo round, gettava la spugna cadendo su quel materasso pieno di pugni come il suo viso. L’ “Eau de Parfum de Carogne de Intense WC de Toilette”, non si sentiva nell’aria. Gli ambienti di lavoro erano carichi di un profumo proveniente dalle finestre aperte. L’aria che entrava, in quel periodo dell’anno, era carica del tipico profumo dei tigli, dolce e smielato. Inalarlo, per Alcide, era come entrare in un’atmosfera conturbante, suscitandogli un risveglio emozionale, dove turbamenti e inquietudini dello stato d’animo magicamente scomparivano. Si trovava alla finestra, facendosi inebriare da quel regalo della natura, quando la porta si aprì e il profumo scomparve dal suo olfatto. Non udì il passo di quel tacco dodici che preannunciava la veemente apertura della porta e non venne investito da quella nuvola profumata di aghi di pino, felci e muschi silvestri per un’igiene sicuro del wc. Una figura esile si materializzò di fronte a lui. Una giovane, dallo sguardo timido e dal fare impacciato, con un abbigliamento rigoroso e casto nello stesso tempo si presentò, il suo nome era Fiordaliso. Prima con Esmeralda ora con Fiordaliso, un altro personaggio di  Notre-Dame de Paris era entrato nella vita di Alcide alias Quasimodo. La giovane si avvicinò e, richiamando l’attenzione di Alcide con un “… mi scusi sig. Alcide se la disturbo…”, gli consegnò quello stesso fascicolo che una settimana prima era stato messo nelle mani di “Miss Parfurm”.  La giovane si presentò quale sostituta provvisoria della Direttrice (ora chiamata con il nome della carica che ricopriva per una mera forma di rispetto, ma che rispondeva sempre agli innumerevoli soprannomi coniati da Alcide, l’ultimo, “Profumo Igienizzante su Tacchi Spillo”). La giovane, consegnando il fascicolo ad Alcide, lo informò che la Direttrice non era presente in sede e la sua assenza dovuta ad alcuni accertamenti sanitari a carattere cardiaco. L’assenza obbligata, comunque, non le avrebbe impedito di lavorare da casa, e la sua presenza era ugualmente e costantemente assicurata per il tramite della Dottoressa Fiordaliso. Rimasto stupito sullo stato di salute della Direttrice, andò a risedersi alla sua scrivania. La notizia lo distolse dal pensiero della relazione riconsegnata, ma posato il fascicolo lo osservò come si osserva un dossier contenente la sentenza di un tribunale. Rimase in contemplazione del plico, lo fissò così tanto che gli sembrò intravedere il viso della Direttrice. Poi, molto timidamente, lo aprì e incominciò a sfogliare. I primi fogli non presentavano alcuna correzione, solo una leggera piegatura alla base destra, come se fossero stati sfogliati una sola una volta. Alcide rimase esterrefatto. Il tutto gli dava l’impressione e la sensazione che la relazione, non presentando correzioni, note e quant’altro, avesse passato l’approvazione della Direttrice. Sfogliava e si immaginava essere ricevuto dalla stessa, sfogliava e sentiva parole di complimenti e gratitudine elargite con profonda stima e riconoscenza, sfogliava e sognava una carriera sotto una nuova luce, sfogliava e sentiva il giungere di una imminente elevazione lavorativa, sfogliava e sentiva che ben presto quegli ostacoli emotivi che lo attanagliavano sarebbero stati solo un brutto ricordo, sfogliava e quelle parole sui fogli erano rimaste come le aveva scritte lui, sfogliava e nessuna traccia di correzione aveva sfregiato il suo lavoro, sfogliava, sfogliava e ancora sfogliava. Sfogliava e solo un leggerissimo, quasi impercettibile, odore familiare si emanava da quello sfogliare. Raggiunse l’ultima pagina, l’ultima riga, le ultime parole di chiusura, “…l’efficacia delle azioni attuate genereranno così un ritorno positivo per la società. “ La relazione di Alcide si concludeva a circa metà dell’ultimo foglio. La parte rimasta bianca presentava una scritta a penna. Una calligrafia quasi incomprensibile. Tratti simili a punte aguzze di filo spinato conficcarono gli occhi di Alcide: “A causa della significativa deviazione dalle norme che disciplinano la materia, non si riscontra coerenza nella relazione. Appurato l’effetto combinato legato sia all’impossibilità di acquisizione dei dati probanti, sufficienti ed appropriati, sia al fatto che questi errori siano significativi e pervasivi, e valutate le diverse proposte specifiche contenute, si esprime parere negativo”. Le lettere della parola “negativo” incominciarono a dilatarsi, i contorni a sbiadirsi. Lacrime amare piovvero dai suoi occhi. Quel profumo, quell’odore, quel puzzo ancora una volta gli strinse la gola. Alcide richiuse il fascicolo, lo ripose in un cassetto e senza minimamente curarsi dell’orario di lavoro, impensabile per lasciare l’ufficio, se ne andò. Rientrò a casa e si diresse verso il grande specchio della camera da letto. Specchiandosi non vide né Ivan Drago né la testa e il viso di quell’ingobbito ma sagace e pungente statista. Cadde al tappeto o meglio sul materasso, quello delle botte, un ultimo incontro, un’ultima spugna era stata gettata. L’assenza di Alcide in ufficio, per alcuni giorni, non venne giustificata, quella della Direttrice si protraeva e le notizie che giungevano non erano confortanti. La Dottoressa Fiordaliso, come ogni mattina, prima di andare a lavoro si recava nell'attiguo bar alla Società in cui lavorava. Quel giorno si era ripromessa di scoprire la causa dell’assenza di Alcide, dove neppure i colleghi sapevano capacitarsene. Contatto telefonico non raggiungibile, parenti inesistenti, amici ancora meno e nessuno che si era offerto di recarsi direttamente a casa sua. Ordinò il suo caffè doppio e una brioche. Nel sorbire la bevanda, che avrebbe dovuto darle la carica giusta nell' affrontare la giornata, incominciò a sfogliare il giornale. Le pagine dedicate alla città erano quelle che più le interessavano. Nuovi interventi comunali, riqualificazioni, eventi culturali, qualcosa di sport, cronaca rosa e anche nera. In quest'ultima un breve articolo riguardante una rapina sventata, ma con tragico epilogo. Il titolo riportava esattamente: "Sventa una rapina a un distributore. Muore subito dopo aver messo in fuga i rapinatori. Causa del decesso un pugno in pieno viso e uno nello stomaco". L’articolo venne macchiato. Una grossa goccia di marmellata, fuoriuscita dalla brioche, cadde sul giornale impedendo la prosecuzione della lettura. Imbarazzata per il piccolo incidente e nell’aver macchiato il quotidiano del locale, prese un fazzolettino di carta e, nel tentare di ripulire, asportando il coagulo di marmellata che ricopriva la parte finale dell’articolo, continuò a leggere. Alla macchia di marmellata, di cui solo qualche traccia ora non impediva di terminare la lettura dell’articolo, si aggiunse, dopo qualche istante, la fragorosa caduta dell’intera tazzina di caffè, dalle sue mani. Quel giornale sembrava un campo di battaglia disseminato di mine, quali macchie di marmellata, caffè e briciole di brioche. Un cerchio e striature di caffè, lasciati dalla base della tazzina, che nel frattempo era stata raddrizzata, circoscrivevano, non come un cerchio olimpico o come una medaglia ma verosimilmente come una corona funebre, il nome, l’età e la sede in cui lavorava l’uomo rimasto vittima. Il nome era Alcide. La notizia della scomparsa di Alcide a breve si diffuse in tutta la Società. Quasi nessuno conosceva bene Alcide, i commenti erano vaghi: “un tipo molto particolare”, “uno molto ritirato”, “deve aver avuto qualche disagio mentale”, e ancora “lo dicevo io che era strano, chissà cosa gli è saltato in mente quella sera”, “un tipo così, mettersi contro dei delinquenti”; “ma io dico non si era visto allo specchio, pensava d’essere il pugile russo avversario di Rocky IV, Ivan Drago?”.  La scrivania venne ripulita e tutto il materiale scaricato in uno scatolone dell’ufficio, con riportato in brutta grafia il nome Alcide.  Al suo posto arrivò un nuovo assunto, il nome, Giulio Cesare Augusto Ottaviano Orazio Fulvio Massimo ed il cognome, De Vinicio Catone. Chissà se Alcide, da lassù, starà dicendo “per me il primo nome che ha quello glielo hanno dato i genitori in onore di quell’uomo politico sagace e arguto, quello con la gobba carica di segreti, quello che era amico del primo famoso politico del dopoguerra, l’Alcide”. Bussarono alla porta, nessun passo aveva preannunciato il suo arrivo. Alla voce “Avanti!” entrò. Si avvicinò alla scrivania e con la mano sudata, come affetta da iperidrosi, consegnò il fascicolo al De Vinicio Catone. Una flebile voce disse “Dott. Giulio Cesare Augusto Ottaviano Orazio Fulvio Massimo De Vinicio Catone, non mi sono permessa di toccare nulla della sua relazione, è perfetta.  La reputo eccellente, sono sicura che questa sua nuova proposta porterà la nostra Società a livelli unici, mai prima d’ora nessuno aveva pensato alla strategia da lei egregiamente esposta”. Quindi si girò sui suoi tacchi, che tacchi dodici non erano più ma delle semplici e comode ballerine, e salutando si avviò verso la porta, lasciando dietro a sé un leggero e delicato profumo di talco. Prima che uscisse il De Vinicio Catone chiese: “Direttrice, la vedo bene, come sta con quel problemuccio cardiaco che le si era presentato?”. La Direttrice, abbassando gli occhi e con tono pacato, rispose: “Bene, molto meglio, la mia vita è cambiata in tutti i sensi dopo il trapianto di cuore”, quindi chiuse la porta. Il De Vinicio Catone aprì il cassetto, tirò fuori quella relazione contenuta in una cartellina macchiata di cerchi di caffè, con qualche alone di cibo e ditate rimaste indelebili, si diresse verso il distruggidocumenti e la diede in pasto a quella macchina. Lei, attraversando il corridoio, sottovoce e con le labbra quasi serrate disse: “Razza di presuntuoso, arrogante, raccomandato, vorrei essere Mike Tyson per darti un diretto, un gancio e un montante”. Il cuore di Alcide batteva nel suo petto, ma era ancora in una fase di rodaggio e prima di farlo andare a regime, come solo Alcide poteva e sapeva, ne sarebbe passato di tempo. Chissà se “Parfum de Talon Bas et Talc” (Profumo di Tacco Basso e Talco) ne avrebbe fatto un buon uso.


Sergio Saracchini