venerdì 21 maggio 2021

In presenza

In presenza


So di recare disturbo e forse fastidio

ma perdonatemi se il mio cuore batte

così forte, tanto che il rumore rimbomba

anche nelle orecchie di chi non mi conosce.

Abbiate pazienza passerà questo chiasso

e tornerà la silenziosa mia presenza

dove la lucidità permette il controllo

nel proseguire il cammino  insieme a voi.

Non mi nascondo per poi congedarmi

è solo un momento o forse ore o giorni

che confondono con la paura indossata

presto dismetterò quegli abiti grigi e stretti

per lasciarli nel guardaroba sempre fornito.

Indosserò le parole comode e leggere

che non stringono e lasciano la libertà

di muovermi in uno stile tagliato per me

che non fa moda né tendenza.

 

Sergio Saracchini

Ilcalamaiodelcuore

Venti2maggio2000venti1


domenica 9 maggio 2021

IL FARO

 

 Faro

 IL FARO

Sento le onde di un mare agitato

infrangersi  sulla banchina del porto

tormentando all’altezza dello stomaco.

Marosi schiaffeggiano

la piccola zattera

che batte contro il petto

ma non resiste col suo nodo

stretto forte al molo.

Alla deriva tra le correnti


perdendo la rotta

dove in molti

han perso la via

di un ritorno alla quiete.

Non c’è più nessuno

che si possa incrociare

dopo aver lanciato un s.o.s.,

solo  pinne di squali

corrono e girano intorno

in un macabro carosello

affamati di debolezza e paura.

Luce di un faro

in lontananza mi assomiglia

fatto per servire

ma pur sempre alla deriva.                        

 

Sergio Saracchini zero9/0cinque/duemila20uno

ilcalamaiodelcuoreblog

 

sabato 1 maggio 2021

LA SEDIA

 

LA SEDIA

La sedia è ancora lì, in quel garage, coperta da un velo malinconico di polvere, polvere che racconta, ricorda, porta alla memoria una madre. Memoria che lentamente e silenziosamente le scomparve. La sedia è una di quelle “comode”, imbottita, compatta e a rotelle. Non venne acquistata ma fu regalata da un’amica che, venuta a mancare sua madre che la utilizzava, se ne volle liberare in quanto la riportava a un momento di vita assai doloroso, lo stesso che provai io e chi con me lo condivise. Accadde due volte a distanza di solo un anno, a un’età oramai avanzata e sempre per una caduta accidentale dalle scale. La prima le provocò una frattura del bacino con un conseguente periodo di ospedalizzazione. Solo sedute di fisioterapia e una costante forza di volontà riuscirono a farle riacquistare la funzionalità motoria. La seconda volta le procurò una frattura del femore. Dopo un altro periodo di ospedalizzazione, intervento chirurgico per la sostituzione della testa del femore e ricovero presso una RSA, tornò a casa e da lì a pochi giorni anche la sedia fece il suo ingresso tra le mura domestiche. La nuova caduta e quanto ne conseguì, le provocarono un lento e costante aumento del deficit cognitivo, disturbi comportamentali e alterazioni motorie. Nonostante venne fortemente suggerita una graduale deambulazione, la malattia glielo impedì e la sedia prese il posto delle sue gambe.  La gestione della mamma fu presa da mio padre, uomo tenace e inarrendevole, parola che pronunciò prima di una delle sue ultime sedute di radioterapia qualche anno dopo la scomparsa di mamma. Me lo ricordo. Prima di entrare nell’ambulatorio si rivolse verso un’infermiera e, dopo aver protestato per qualche minuto di attesa e conseguente ritardo sull’appuntamento, disse ad alta voce: “…io sono sempre stato puntuale e preciso nel mio lavoro! “…io in gioventù ho combattuto e lavorato per fare grande questo Paese!” Mia sorella, medico oncologo, seguendo papà nella cura e trovandosi presente in quella circostanza, lo ammonì severamente. Si avvicinò al suo orecchio e, modulando la voce ma con tono deciso, disse: “Papà! Primo, non ti permettere di protestare; secondo, se ti guardi attorno puoi constatare quante persone pazientemente stanno attendendo il loro turno; terzo, non dire mai più quello che hai detto! Qui, come nel mio reparto, ci sono colleghi, tecnici e infermieri che lavorano duramente dalla mattina a sera e tra tutti questi ci sono pure io! Tua figlia!” L’ammonimento lo fece ammutolire, accennò un piccolo e tirato sorriso (era la sua maniera silenziosa per ammettere l’errore e farsi perdonare) poi, volendo avere lui l’ultima parola, concluse con un fiero: “Io sono INARRENDEVOLE!”.   Inarrendevole lo fu anche e soprattutto nel periodo in cui si prese cura di mamma, prigioniera della malattia che invase e occupò la sua mente. Noi figli, ogni giorno e dopo il lavoro, non mancavamo di passare da loro e per un saluto e per renderci utili in qualsiasi esigenza si presentasse. Mia sorella, in qualità di medico, monitorava lo stato di salute della mamma ma anche quello di papà, io mi rendevo disponibile nella spesa, in quegli aspetti legati alla quotidianità, alla fornitura di ausili necessari a papà nel venire incontro alle esigenze di mamma. La maggior parte della giornata la trascorrevano nella mia ex cameretta che era stata trasformata in salottino. Mia mamma seduta sulla sedia e mio padre sul divano. Mi sedevo sempre al suo fianco e scambiavo due chiacchiere con lui. Quello stargli vicino, il sentire la sua voce sicura e priva di esitazioni, come i dialoghi sempre ricchi di forza, certezza e fiducia, mi davano una carica incredibile, una fonte di inarrendevolezza. Prendersi cura di un paziente Alzheimer non è semplice, lo sappiamo. Lui, a noi figli, non ha mai fatto pesare quella dura e pesante situazione in cui viveva. Assistere 24 ore su 24 un paziente con una malattia neurodegenerativa e nel contempo essere coniugi non è da tutti. Vedere la compagna di una vita perdersi in un mondo senza memoria, in un viaggio ovattato, su una sedia a rotelle e con un biglietto di sola andata, ci vuole coraggio, determinazione, forza mentale e anche fisica. Bisogna nascere con quel coraggio e con lo stesso coraggio affrontare, fino all’ultimo, anche la malattia che lo colpì portandoselo via. Sono convinto che l’insorgere della malattia con il suo repentino aggravarsi, subito dopo la scomparsa di mamma, erano strettamente collegate. Il compimento di quelle azioni quotidiane rivolte verso la moglie, come la cura della persona, l’igiene intima, il cambio degli indumenti e degli ausili ad assorbenza, la preparazione e somministrazione dei pasti e farmaci, lo stimolarla parlandole e il raccontarci di come aveva trascorso la giornata, erano per lui tutte ragioni di vita e per noi figli, anche se mamma si era allontanata con la mente, il modo per tenere sempre vivo e forte il legame, quello della famiglia. Papà aveva la sua età e certamente, nonostante avesse forza, non poteva continuare la gestione di mamma totalmente da solo, era necessario un aiuto. Con mia sorella decidemmo di ricorrere ad un supporto esterno, una badante. Non fu semplice convincerlo. La reazione alla proposta fu dura, provocando uno scontro di idee assai acceso tra noi figli e lui. Si arrivò comunque a convincerlo. La prima fu una donna di origine sudamericana, la seconda albanese, la terza africana, la quarta russa, la quinta asiatica. Nella tragicità del momento un aspetto ironico, mancava una rappresentante del Continente dell’Oceania e dell’Antartide e avevamo fatto il giro del mondo in cerca di una badante. Nell’insieme non durarono più di tre/quattro mesi. Le stesse decisero autonomamente di non continuare il servizio constatato che mio padre, oltre a non accettare estranei in casa, non tollerava persone che prendessero in mano situazioni e iniziative. Decise e impose che l’individuazione e scelta di una badante fosse unicamente sua prerogativa. Fu così che un giorno, recandoci a casa sua dopo il lavoro, trovammo una donna da poco giunta dalla Romania. Una persona molto riservata ed educata. Nonostante inizialmente non conoscesse la lingua, capì immediatamente come muoversi e comportarsi con papà. Una donna molto intelligente, lungimirante, veloce nell’apprendere non solo la lingua italiana, ma anche usi e tradizioni dell’Italia. Mio padre, oltre a insegnarle il significato delle parole e costruzioni grammaticali, riuscì a farle apprendere l’arte del cucinare secondo la tradizione italiana (sua grande passione) e con essa la necessità di studiare e far propri concetti, informazioni, leggi necessarie a gestire e risolvere situazioni che la vita poneva. Le impartì addirittura lezioni di aritmetica e geometria. Essendo un perito industriale, con tanta passione per quelle materie, sosteneva che la matematica era alla base di tutto e i numeri protagonisti nella storia dell’uomo. Una piccola parentesi. Prima che la bara venisse chiusa, riponemmo all’interno un quaderno, una matita, un temperino, una gomma e due dei suoi vecchi libri di scuola, matematica e tecniche di disegno e progettazione industriale. Forse lassù avrebbe avuto piacere di insegnare a qualche angelo alcune formule aritmetiche. La tenacia della donna, la forza fisica e un corretto approccio nell’accudire una persona affetta da Alzheimer, furono doti essenziali per mio padre, tanto che arrivò a riporre in lei la massima fiducia. Dimenticavo, il suo nome era Gherghina. Gherghina rimase per quasi dieci anni nella nostra casa, prima assistendo mamma e poi papà. In Romania ci tornò definitivamente dopo la scomparsa di mio padre. Il ruolo mio e di mia sorella non fu affatto marginale, il nostro contributo lo davamo con lo stesso amore con cui loro ci crebbero, educarono, istruirono, senza mai farci mancare nulla, senza mai essere assenti sia nelle nostre difficoltà che nei momenti di gioia e successo. È comunque vero che a volte mi sentivo uno spettatore passivo, avrei voluto fare e dare qualcosa in più per vedere mamma reagire a una carezza, a un bacio, a un voltarsi se chiamata per nome, ma a qualsiasi mio cenno di richiamo la risposta era uno sguardo fisso e perso su un punto non definito in una “loquacità muta”. Ho provato ad immedesimarmi in lei, solo per un attimo, povero illuso mi sono detto, come puoi pensare di riuscirci. Come puoi immedesimarti in quel perdere la memoria, in quel non riconoscere chi hai sposato, partorito, nutrito, cresciuto. Immaginavo parole, pensieri, ricordi che nella sua mente si muovevamo confusamente in un labirinto di corridoi, che si incrociavano e cozzavano tra loro in una penombra prodotta da spiragli di luce impigliata tra le maglie della consapevolezza di non riuscire a fare ciò che si faceva prima. Con mamma tentavo un dialogo. Avrei voluto riallacciarmi a lei con quello stesso cordone ombelicale che ci ha tenuti uniti nel suo grembo, per trasmetterle ricordi, pensieri, parole, suoni, per arrivare a farle ricordare il mio primo vagito. Quest’anno sono già undici anni che mamma se ne è andata. Sulla lastra di marmo dove è inciso il suo nome o a casa nella cornice di un portafoto osservo la sua immagine, le racconto che spesso mi capita di non ricordare una parola, un evento, un nome, una data. Le domando, “…mamma, sono forse segnali?”, poi sento chiamare, mi giro, vedo mio figlio, mia moglie, li chiamo per nome, parlo con loro dell’oggi, del domani, di anniversari, scadenze, impegni, ricorrenze, appuntamenti, incontri e di tutto quello che gira attorno a una famiglia. Parliamo di ieri, dell’altro ieri, di un mese fa, di un anno fa, di sette anni fa quando papà ci lasciò, di undici anni orsono quando mamma lo precedette, di sedici anni fa quando mamma si perse stando seduta su quella sedia. Capita che racconto di lei, di quando mi accompagnava all’asilo o in riva al mare. Eravamo proprio al mare ed era la metà degli anni sessanta. Un giorno, incautamente e senza che mia mamma se ne accorgesse, mi allontanai da solo per andare in riva al mare, mi persi tra ombrelloni, sdraio e bagnanti. Lei mi ritrovò piangente. Da lontano udì la mia voce che singhiozzante chiamava mamma e scorse il rosso dei miei capelli. Ancora oggi, nonostante capelli e barba sono diventati bianchi, da lontano, da molto lontano, mi sente, mi vede, mi riconosce. Ogni tanto mi domando: “…perché non ti decidi a portare via quella sedia, a disfarti di un qualcosa che riporta alla memoria un momento cosi doloroso?”, invece la sedia rimane lì con la sua polvere. Ci guardiamo e parliamo con un dialogo composto di parole che sono sguardi carichi di polvere, di perché, di malinconia, rabbia, paura, nostalgia, tenerezza e dolcezza. Parliamo di noi, parliamo di tanti ricordi, parliamo di tanta memoria.

 

Sergio Saracchini

ilcalamaiodelcuore

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