LA SEDIA
La sedia è ancora lì, in quel garage, coperta da un
velo malinconico di polvere, polvere che racconta, ricorda, porta alla memoria una
madre. Memoria che lentamente e silenziosamente le scomparve. La sedia è una di
quelle “comode”, imbottita, compatta e a rotelle. Non venne acquistata ma fu regalata
da un’amica che, venuta a mancare sua madre che la utilizzava, se ne volle
liberare in quanto la riportava a un momento di vita assai doloroso, lo stesso
che provai io e chi con me lo condivise. Accadde due volte a distanza di solo
un anno, a un’età oramai avanzata e sempre per una caduta accidentale dalle
scale. La prima le provocò una frattura del bacino con un conseguente periodo
di ospedalizzazione. Solo sedute di fisioterapia e una costante forza di
volontà riuscirono a farle riacquistare la funzionalità motoria. La seconda
volta le procurò una frattura del femore. Dopo un altro periodo di
ospedalizzazione, intervento chirurgico per la sostituzione della testa del
femore e ricovero presso una RSA, tornò a casa e da lì a pochi giorni anche la
sedia fece il suo ingresso tra le mura domestiche. La nuova caduta e quanto ne
conseguì, le provocarono un lento e costante aumento del deficit cognitivo, disturbi
comportamentali e alterazioni motorie. Nonostante venne fortemente suggerita una
graduale deambulazione, la malattia glielo impedì e la sedia prese il posto
delle sue gambe. La gestione della mamma
fu presa da mio padre, uomo tenace e inarrendevole, parola che pronunciò prima
di una delle sue ultime sedute di radioterapia qualche anno dopo la scomparsa
di mamma. Me lo ricordo. Prima di entrare nell’ambulatorio si rivolse verso
un’infermiera e, dopo aver protestato per qualche minuto di attesa e
conseguente ritardo sull’appuntamento, disse ad alta voce: “…io sono sempre stato puntuale e preciso nel
mio lavoro! “…io in gioventù ho
combattuto e lavorato per fare grande questo Paese!” Mia sorella, medico oncologo, seguendo
papà nella cura e trovandosi presente in quella circostanza, lo ammonì severamente.
Si avvicinò al suo orecchio e, modulando la voce ma con tono deciso, disse: “Papà! Primo, non ti permettere di
protestare; secondo, se ti guardi attorno puoi constatare quante persone
pazientemente stanno attendendo il loro turno; terzo, non dire mai più quello
che hai detto! Qui, come nel mio reparto, ci sono colleghi, tecnici e
infermieri che lavorano duramente dalla mattina a sera e tra tutti questi ci
sono pure io! Tua figlia!” L’ammonimento
lo fece ammutolire, accennò un piccolo e tirato sorriso (era la sua maniera silenziosa
per ammettere l’errore e farsi perdonare) poi, volendo avere lui l’ultima
parola, concluse con un fiero: “Io
sono INARRENDEVOLE!”. Inarrendevole lo fu anche e soprattutto nel
periodo in cui si prese cura di mamma, prigioniera della malattia che invase e
occupò la sua mente. Noi figli, ogni giorno e dopo il lavoro, non mancavamo di passare
da loro e per un saluto e per renderci utili in qualsiasi esigenza si
presentasse. Mia sorella, in qualità di medico, monitorava lo stato di salute della
mamma ma anche quello di papà, io mi rendevo disponibile nella spesa, in quegli
aspetti legati alla quotidianità, alla fornitura di ausili necessari a papà nel
venire incontro alle esigenze di mamma. La maggior parte della giornata la
trascorrevano nella mia ex cameretta che era stata trasformata in salottino.
Mia mamma seduta sulla sedia e mio padre sul divano. Mi sedevo sempre al suo
fianco e scambiavo due chiacchiere con lui. Quello stargli vicino, il sentire
la sua voce sicura e priva di esitazioni, come i dialoghi sempre ricchi di
forza, certezza e fiducia, mi davano una carica incredibile, una fonte di
inarrendevolezza. Prendersi cura di un paziente
Alzheimer non è semplice, lo sappiamo. Lui, a noi figli, non ha mai fatto
pesare quella dura e pesante situazione in cui viveva. Assistere 24 ore su 24
un paziente con una malattia neurodegenerativa e nel contempo essere coniugi non
è da tutti. Vedere la compagna di una vita perdersi in un mondo senza memoria,
in un viaggio ovattato, su una sedia a rotelle e con un biglietto di sola
andata, ci vuole coraggio, determinazione, forza mentale e anche fisica.
Bisogna nascere con quel coraggio e con lo stesso coraggio affrontare, fino
all’ultimo, anche la malattia che lo colpì portandoselo via. Sono convinto che
l’insorgere della malattia con il suo repentino aggravarsi, subito dopo la
scomparsa di mamma, erano strettamente collegate. Il compimento di quelle
azioni quotidiane rivolte verso la moglie, come la cura della persona, l’igiene
intima, il cambio degli indumenti e degli ausili ad assorbenza, la preparazione
e somministrazione dei pasti e farmaci, lo stimolarla parlandole e il
raccontarci di come aveva trascorso la giornata, erano per lui tutte ragioni di
vita e per noi figli, anche se mamma si era allontanata con la mente, il modo per
tenere sempre vivo e forte il legame, quello della famiglia. Papà aveva la sua
età e certamente, nonostante avesse forza, non poteva continuare la gestione di
mamma totalmente da solo, era necessario un aiuto. Con mia sorella decidemmo di
ricorrere ad un supporto esterno, una badante. Non fu semplice convincerlo. La
reazione alla proposta fu dura, provocando uno scontro di idee assai acceso tra
noi figli e lui. Si arrivò comunque a convincerlo. La prima fu una donna di
origine sudamericana, la seconda albanese, la terza africana, la quarta russa,
la quinta asiatica. Nella tragicità del momento un aspetto ironico, mancava una
rappresentante del Continente dell’Oceania e dell’Antartide e avevamo fatto il
giro del mondo in cerca di una badante. Nell’insieme non durarono più di tre/quattro
mesi. Le stesse decisero autonomamente di non continuare il servizio constatato
che mio padre, oltre a non accettare estranei in casa, non tollerava persone che
prendessero in mano situazioni e iniziative. Decise e impose che l’individuazione
e scelta di una badante fosse unicamente sua prerogativa. Fu così che un
giorno, recandoci a casa sua dopo il lavoro, trovammo una donna da poco giunta
dalla Romania. Una persona molto riservata ed educata. Nonostante inizialmente
non conoscesse la lingua, capì immediatamente come muoversi e comportarsi con
papà. Una donna molto intelligente, lungimirante, veloce nell’apprendere non
solo la lingua italiana, ma anche usi e tradizioni dell’Italia. Mio padre, oltre
a insegnarle il significato delle parole e costruzioni grammaticali, riuscì a
farle apprendere l’arte del cucinare secondo la tradizione italiana (sua grande
passione) e con essa la necessità di studiare e far propri concetti,
informazioni, leggi necessarie a gestire e risolvere situazioni che la vita
poneva. Le impartì addirittura lezioni di aritmetica e geometria. Essendo un
perito industriale, con tanta passione per quelle materie, sosteneva che la
matematica era alla base di tutto e i numeri protagonisti nella storia
dell’uomo. Una piccola parentesi. Prima che la bara venisse chiusa, riponemmo
all’interno un quaderno, una matita, un temperino, una gomma e due dei suoi
vecchi libri di scuola, matematica e tecniche di disegno e progettazione industriale.
Forse lassù avrebbe avuto piacere di insegnare a qualche angelo alcune formule
aritmetiche. La tenacia della donna, la forza fisica e un corretto approccio
nell’accudire una persona affetta da Alzheimer, furono doti essenziali per mio
padre, tanto che arrivò a riporre in lei la massima fiducia. Dimenticavo, il
suo nome era Gherghina. Gherghina rimase per quasi dieci anni nella nostra
casa, prima assistendo mamma e poi papà. In Romania ci tornò definitivamente
dopo la scomparsa di mio padre. Il ruolo mio e di mia sorella non fu affatto
marginale, il nostro contributo lo davamo con lo stesso amore con cui loro ci
crebbero, educarono, istruirono, senza mai farci mancare nulla, senza mai
essere assenti sia nelle nostre difficoltà che nei momenti di gioia e successo.
È comunque vero che a volte mi sentivo uno spettatore passivo, avrei voluto
fare e dare qualcosa in più per vedere mamma reagire a una carezza, a un bacio,
a un voltarsi se chiamata per nome, ma a qualsiasi mio cenno di richiamo la
risposta era uno sguardo fisso e perso su un punto non definito in una “loquacità
muta”. Ho provato ad immedesimarmi in lei, solo per un attimo, povero illuso mi
sono detto, come puoi pensare di riuscirci. Come puoi immedesimarti in quel
perdere la memoria, in quel non riconoscere chi hai sposato, partorito,
nutrito, cresciuto. Immaginavo parole, pensieri, ricordi che nella sua mente si
muovevamo confusamente in un labirinto di corridoi, che si incrociavano e
cozzavano tra loro in una penombra prodotta da spiragli di luce impigliata tra
le maglie della consapevolezza di non riuscire a fare ciò che si faceva prima.
Con mamma tentavo un dialogo. Avrei voluto riallacciarmi a lei con quello
stesso cordone ombelicale che ci ha tenuti uniti nel suo grembo, per
trasmetterle ricordi, pensieri, parole, suoni, per arrivare a farle ricordare il
mio primo vagito. Quest’anno sono già undici anni che mamma se ne è andata. Sulla
lastra di marmo dove è inciso il suo nome o a casa nella cornice di un
portafoto osservo la sua immagine, le racconto che spesso mi capita di non
ricordare una parola, un evento, un nome, una data. Le domando, “…mamma, sono forse segnali?”, poi sento
chiamare, mi giro, vedo mio figlio, mia moglie, li chiamo per nome, parlo con
loro dell’oggi, del domani, di anniversari, scadenze, impegni, ricorrenze,
appuntamenti, incontri e di tutto quello che gira attorno a una famiglia.
Parliamo di ieri, dell’altro ieri, di un mese fa, di un anno fa, di sette anni
fa quando papà ci lasciò, di undici anni orsono quando mamma lo precedette, di sedici
anni fa quando mamma si perse stando seduta su quella sedia. Capita che racconto
di lei, di quando mi accompagnava all’asilo o in riva al mare. Eravamo proprio
al mare ed era la metà degli anni sessanta. Un giorno, incautamente e senza che
mia mamma se ne accorgesse, mi allontanai da solo per andare in riva al mare,
mi persi tra ombrelloni, sdraio e bagnanti. Lei mi ritrovò piangente. Da
lontano udì la mia voce che singhiozzante chiamava mamma e scorse il rosso dei
miei capelli. Ancora oggi, nonostante capelli e barba sono diventati bianchi, da
lontano, da molto lontano, mi sente, mi vede, mi riconosce. Ogni tanto mi domando:
“…perché non ti decidi a portare via
quella sedia, a disfarti di un qualcosa che riporta alla memoria un momento cosi
doloroso?”, invece la sedia rimane lì con la sua polvere. Ci guardiamo e parliamo
con un dialogo composto di parole che sono sguardi carichi di polvere, di
perché, di malinconia, rabbia, paura, nostalgia, tenerezza e dolcezza. Parliamo
di noi, parliamo di tanti ricordi, parliamo di tanta memoria.
Sergio Saracchini
ilcalamaiodelcuore
0uno0cinque2000venti1