martedì 21 dicembre 2021

LA SCATOLA


LA SCATOLA

La scatola di latta vive nel buio e viene spolverata e aperta una sola volta all’anno.  Inizialmente aveva preso posto nella cantina della casa dei miei genitori. Una volta scomparsi, tra i tanti ricordi, decisi di custodire anche quell’oggetto. La scatola conteneva, e contiene ancora, qualcosa di magico e di unico. Entrò per la prima volta, con l’approssimarsi di un Natale, nella casa della città che mi vide nascere quasi sessanta anni orsono. La portò mio padre. Era un regalo che ricevette dalla dirigenza dell’industria in cui lavorava e nessun dipendente venne escluso dal ricevere quell’omaggio così gradito a tutti. Un modo per dimostrare affetto, gratitudine e augurare un sereno Natale alle famiglie di ogni singolo lavoratore. La scatola, di un certo volume, in latta e di colore rosso vivo, con decorazioni tipiche natalizie, venne rigorosamente messa sotto l’albero e nessuno poteva aprirla prima della notte del 24 dicembre. Se qualcuno avesse violato la regola, Babbo Natale non sarebbe giunto. Questo, naturalmente, era quanto i miei genitori raccontavano a me e a mia sorella, uno stratagemma per rendere il Natale ancora più carico di magia. I giorni precedenti la Vigilia mi vedevano carico di una trepidante attesa. La curiosità di sapere cosa contenesse quello scrigno era immensa. Arrivò la sera del 24 dicembre. Quando la scatola venne aperta, al suo interno trovai un panettone, sacchetti di arachidi e noci, una confezione di fichi secchi, torroni, biscotti, cioccolatini, bastoncini di zucchero caramellato e piccole decorazioni di cioccolata da appendere ai rami dell’albero. Le luci delle luminarie che adornavano l’albero, riflettendosi sulle carte luccicanti e sulle pareti dorante della scatola, mi avvolsero in un’atmosfera quasi surreale. I miei occhi, gonfi di straordinario stupore e incredulità, scrutavano quel contenuto prezioso, mentre le mie manine incominciarono a toccare quelle fantastiche leccornie. Una piccola scatola, rivestita da una carta rossa, attrasse la mia attenzione. La presi scuotendola e con impazienza incominciai a scartarla. Nelle mie mani una macchinina azzurra.  All’epoca mio padre non aveva la patente e un’auto non ce la potevamo permettere. Quella condizione mi fece sognare che quel piccolo giocattolo potesse un giorno diventare la vera automobile della nostra famiglia. Dentro di me, e con i sogni di bimbo, speravo tanto che Babbo Natale potesse portarne una vera facendola trovare, la notte del 24 dicembre, nel nostro garage, garage che per anni era il luogo dove veniva parcheggiato l’unico mezzo di locomozione della famiglia, la famosa Lambretta. Quella macchinina, negli anni dell’infanzia, mi fece viaggiare con la fantasia in tutto il mondo. Il pavimento di casa era una lunga autostrada che mi permetteva di spostarmi da una nazione all’altra. Potevo essere in Italia, la mia cameretta, andare in Francia, la camera dei miei, quindi in Spagna, quella di mia sorella, percorrere un immaginario e lunghissimo ponte, il bordo della vasca da bagno e arrivare in America e da qui in America Latina. Ripercorrendo il bordo della vasca uscire dal bagno e giungere in Africa, la cucina, quindi risalire tutto il continente africano per arrivare in Arabia, lo sgabuzzino, e infine in Cina e Russia, il salotto. Una volta svuotata la scatola, con il trascorrere degli anni, la stessa venne sempre utilizzata per riporre gli addobbi di Natale. Divenne un simbolo, facile da individuare tra le mille cose riposte in cantina. Il suo contenuto, negli anni, è necessariamente cambiato. Gli addobbi dell’epoca sono stati sostituiti, man mano, da altri più moderni e tecnologici. Ora io ci ripongo luci a led, decorazioni in vetro soffiato, personaggi e oggetti a tema prodotti in gesso e decorati a mano. Fino a qualche anno fa, con l’approssimarsi dell’8 dicembre, giorno in cui per tradizione si prepara l’albero, scendevo in cantina, spolveravo la scatola e la portavo a casa per dare inizio all’addobbo natalizio. Oggi ci pensa mio figlio, scende in cantina mentre io attendo, attendo che la porta d’ingresso si apra e che, magicamente, la scatola faccia il suo ingresso. Apro quella scatola di latta, di colore rosso, con immagini natalizie. Una magica luce esce e mi riempie gli occhi di emozione. Le mie mani estraggono gli ornamenti e le statuine del presepe, mentre fuori si sentono suonare le campane, canzoni natalizie riecheggiano nell’aria e chissà quanti bimbi stanno scrivendo le loro letterine a Babbo Natale, magari con il desiderio di ricevere una macchinina. Richiudo la scatola rimasta vuota ma, prestando attenzione, nel suo interno si ode ancora la voce di un bimbo con il suo brum… brum…di colore azzurro. Inizia il mio viaggio nei paesi del mondo, sulle strade dei ricordi, in cerca di serenità, pace e di un vero Natale.


                                                             Sergio Saracchini/Natale 2021


sabato 18 dicembre 2021

Natale 2021

 


In questa notte magica

solo una stella brilla

e osservandoci da lassù dice:

“Dentro ai vostri cieli

che battono forte

voglio rinascere

per continuare a vivere

insieme a tutti voi”.


💖💖💖💖💖💖


Nello scintillio di una stella

si placa il rumore del vento

che alimenta l’ira

e s’azzittiscono le voci

furiose e violente.

Solo un vagito s’ode

e lo scendere di lacrime

sui volti carichi di tenerezza

s’illuminano nel volo leggero

di angeli che si posano

sulle capanne delle anime



💝💝💝💝💝💝💝


Il respiro che scalda

la semplice e povera culla

avvolge corpi

infreddoliti e miseri.

Fermiamoci per un attimo

in questo riparo sicuro

dove trovare tutto quello

che occhi e mani

non riescono a vedere

e a tenere stretto.


💞💞💞💞💞💞💞


Cerco di non piangere

pensando al passato,

cerco di non disperare

per non essere quel che vorrei,

cerco d’avere coraggio

sulla strada d’insidie,

cerco la cura

che possa placarmi

la sofferenza della paura,

cerco giorno dopo giorno

di sciogliere catene

e aprire lucchetti.

Cerco e trovo

una grande pace

osservano la tenue luce

di questo giorno.



SergioSaracchini/Natale2021


mercoledì 8 dicembre 2021

L’attesa


 

L’attesa

 

Ho rubato il brillare

di una piccola luce

che è ancora lontana

ma cresce nel petto

riscaldando pareti

di una casa che vive.

 

La nutro in silenzio

la cullo nel sonno

mentre recito lento

preghiera di pace.

 

Non sento lamenti

non scendono lacrime

solo l’attesa

d’argento vivo

su ali di angeli

che dirigono un coro

di uomini e donne

di bimbi nel mondo.

 

Questo l’abbraccio

di anime liete

che gli occhi riempie

di magica attesa.


SergioSaracchini

zero8dicembre2000venti1

lunedì 18 ottobre 2021

La giusta dose

 
La giusta dose

Vorrei essere goccia
nell’incavo di una foglia
alla testa delle mie compagne
per scivolare lentamente
nel cuore di una pianta
dove radici attendono
per dissetarsi.
 
Non è poi cosi complicato
lasciarsi cadere da una nuvola
sapendo d’essere accolti
con fiducia e speranza.
 
Un piacevole modo
semplice e naturale
per entrare nell’anima
di chi e di cosa si ama
goccia dopo goccia.
 
Senza abbondare
senza annegare
ma solo
nella giusta dose.   

SergioSaracchini
dici8bre2mila20uno





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 1 ottobre 2021

PAROLE


Parole

Le parole hanno il volto

di un inchiostro sbiadito

sciolto da lacrime

piovute da occhi gonfi

per un amore interrotto

per un ricordo nell’addio.

Le parole sono segreti

sigillati dentro buste

riposte in un cassetto

chiuso a chiave

da un amore negato

nell’indifferenza assoluta.

Le parole sono semi

su un terreno di carta

irrigato da labbra

che leggono e accorciano

la distanza e l’assenza

da un affetto lontano.

Le parole si nascondono

nella tasca di una giacca

o dentro una borsa,

le parole dimenticate

continuano a raccontare

nel silenzio e nel buio assoluto.


Sergio Saracchini

zero18bre2000venti1

IlcAlAmAiOdElCuOrE

domenica 12 settembre 2021

Il treno

Il treno


È bello

sentire entrare dalla finestra

il suono del treno.

Viaggia l’emozione

su binari di memoria

quando accelera

tra pianure e paesi

e lo stridere di freni

alla fermata della stazione

dove i tempi erano lunghi.

Procedi cavallo ferrato

tra i prati degli anni

verdi e freschi

procedi su binari

che conoscono la mia storia.

Viaggiano  con me

i bagagli dell’epoca

carichi di innocenza

tra briciole e lacrime

di arrivi e partenze.

Non rimane che lasciare aperta la finestra

e respirare l’aria di un suono

che mi porta lontano.


Sergio Saracchini

12zero92000venti1

“ilcalamaiodelcuore”

domenica 11 luglio 2021

Sorriso

 

Sorriso


Abbiamo bisogno d’un sorriso

in questo mondo che barcolla

dove le gambe tremano stanche

sotto il peso di una diffusa incertezza.

In questa straziata amarezza

che posa il suo sguardo

sul petto stanco dell’uomo

dove il fiato corto chiede ossigeno,

solo una piccola attenzione …

un semplice sorriso

con le labbra del cuore

a cancellare le impronte

di una malinconica passeggiata

sul lato oscuro del viso.


SergioSaracchini

12zero7duemila20uno

Le cose della vita

 

 

Le cose della vita

 

Sto invecchiando

nella luce di un settembre

che avvolge le cose

raccolte negli anni

riposte in disordine

nella stanza dei ricordi

dove la strada era l’inizio

e sopportava il tempo

nel passaggio obbligato

sul quale cadevano pietre

ma si potevano schivare.

Ora lascio perdere

tante sono le cose

che ho esaurito, smarrito

o forse sprecato.

--- 

SergioSaracchini

IlCalamaioDelCuore

Zero50setteduemila20uno

 

 

 

 

domenica 20 giugno 2021

Meteo-afora

 

Meteo-afora


In tivù con la divisa

decorato è sul petto

presentarsi in tale guisa

impeccabile d’aspetto

 

il bel tempo lo prevede

caldo e sole lo assicura

quando il tuono che precede

spazza via ogni arsura

 

i fenomeni li studia

su modelli assai precisi

poi prevede che si suda

solo pioggia sopra i visi

 

circondato da barometri

portan freddo e tanta neve

lo Stivale per chilometri

ha la brezza lieve lieve

 

molta alta la pressione

dove il cielo è perturbato

lui ti apre la stagione

con il mare assai agitato

 

non preannuncia temporali

niente fulmini e saette

niente piogge torrenziali

ma il cappotto poi si mette

 

primo giorno è d’estate

con la sciarpa ed il cappello

le vacanze iniziate

sotto il segno dell’ombrello

 

meteoròlogo studioso

dei fenomeni atmosferici

è nel campo scrupoloso

senza termini esoterici

 

tempestivo ad allertare

forte pioggia e allagamento

fino a farti incoraggiare

certo del miglioramento

 

freddo caldo gelo arsura

da pianure monti e valli

di sbagliare ha paura

il consiglio lascia ai calli.


Sergio Saracchini - 21.06.2021

venerdì 21 maggio 2021

In presenza

In presenza


So di recare disturbo e forse fastidio

ma perdonatemi se il mio cuore batte

così forte, tanto che il rumore rimbomba

anche nelle orecchie di chi non mi conosce.

Abbiate pazienza passerà questo chiasso

e tornerà la silenziosa mia presenza

dove la lucidità permette il controllo

nel proseguire il cammino  insieme a voi.

Non mi nascondo per poi congedarmi

è solo un momento o forse ore o giorni

che confondono con la paura indossata

presto dismetterò quegli abiti grigi e stretti

per lasciarli nel guardaroba sempre fornito.

Indosserò le parole comode e leggere

che non stringono e lasciano la libertà

di muovermi in uno stile tagliato per me

che non fa moda né tendenza.

 

Sergio Saracchini

Ilcalamaiodelcuore

Venti2maggio2000venti1


domenica 9 maggio 2021

IL FARO

 

 Faro

 IL FARO

Sento le onde di un mare agitato

infrangersi  sulla banchina del porto

tormentando all’altezza dello stomaco.

Marosi schiaffeggiano

la piccola zattera

che batte contro il petto

ma non resiste col suo nodo

stretto forte al molo.

Alla deriva tra le correnti


perdendo la rotta

dove in molti

han perso la via

di un ritorno alla quiete.

Non c’è più nessuno

che si possa incrociare

dopo aver lanciato un s.o.s.,

solo  pinne di squali

corrono e girano intorno

in un macabro carosello

affamati di debolezza e paura.

Luce di un faro

in lontananza mi assomiglia

fatto per servire

ma pur sempre alla deriva.                        

 

Sergio Saracchini zero9/0cinque/duemila20uno

ilcalamaiodelcuoreblog

 

sabato 1 maggio 2021

LA SEDIA

 

LA SEDIA

La sedia è ancora lì, in quel garage, coperta da un velo malinconico di polvere, polvere che racconta, ricorda, porta alla memoria una madre. Memoria che lentamente e silenziosamente le scomparve. La sedia è una di quelle “comode”, imbottita, compatta e a rotelle. Non venne acquistata ma fu regalata da un’amica che, venuta a mancare sua madre che la utilizzava, se ne volle liberare in quanto la riportava a un momento di vita assai doloroso, lo stesso che provai io e chi con me lo condivise. Accadde due volte a distanza di solo un anno, a un’età oramai avanzata e sempre per una caduta accidentale dalle scale. La prima le provocò una frattura del bacino con un conseguente periodo di ospedalizzazione. Solo sedute di fisioterapia e una costante forza di volontà riuscirono a farle riacquistare la funzionalità motoria. La seconda volta le procurò una frattura del femore. Dopo un altro periodo di ospedalizzazione, intervento chirurgico per la sostituzione della testa del femore e ricovero presso una RSA, tornò a casa e da lì a pochi giorni anche la sedia fece il suo ingresso tra le mura domestiche. La nuova caduta e quanto ne conseguì, le provocarono un lento e costante aumento del deficit cognitivo, disturbi comportamentali e alterazioni motorie. Nonostante venne fortemente suggerita una graduale deambulazione, la malattia glielo impedì e la sedia prese il posto delle sue gambe.  La gestione della mamma fu presa da mio padre, uomo tenace e inarrendevole, parola che pronunciò prima di una delle sue ultime sedute di radioterapia qualche anno dopo la scomparsa di mamma. Me lo ricordo. Prima di entrare nell’ambulatorio si rivolse verso un’infermiera e, dopo aver protestato per qualche minuto di attesa e conseguente ritardo sull’appuntamento, disse ad alta voce: “…io sono sempre stato puntuale e preciso nel mio lavoro! “…io in gioventù ho combattuto e lavorato per fare grande questo Paese!” Mia sorella, medico oncologo, seguendo papà nella cura e trovandosi presente in quella circostanza, lo ammonì severamente. Si avvicinò al suo orecchio e, modulando la voce ma con tono deciso, disse: “Papà! Primo, non ti permettere di protestare; secondo, se ti guardi attorno puoi constatare quante persone pazientemente stanno attendendo il loro turno; terzo, non dire mai più quello che hai detto! Qui, come nel mio reparto, ci sono colleghi, tecnici e infermieri che lavorano duramente dalla mattina a sera e tra tutti questi ci sono pure io! Tua figlia!” L’ammonimento lo fece ammutolire, accennò un piccolo e tirato sorriso (era la sua maniera silenziosa per ammettere l’errore e farsi perdonare) poi, volendo avere lui l’ultima parola, concluse con un fiero: “Io sono INARRENDEVOLE!”.   Inarrendevole lo fu anche e soprattutto nel periodo in cui si prese cura di mamma, prigioniera della malattia che invase e occupò la sua mente. Noi figli, ogni giorno e dopo il lavoro, non mancavamo di passare da loro e per un saluto e per renderci utili in qualsiasi esigenza si presentasse. Mia sorella, in qualità di medico, monitorava lo stato di salute della mamma ma anche quello di papà, io mi rendevo disponibile nella spesa, in quegli aspetti legati alla quotidianità, alla fornitura di ausili necessari a papà nel venire incontro alle esigenze di mamma. La maggior parte della giornata la trascorrevano nella mia ex cameretta che era stata trasformata in salottino. Mia mamma seduta sulla sedia e mio padre sul divano. Mi sedevo sempre al suo fianco e scambiavo due chiacchiere con lui. Quello stargli vicino, il sentire la sua voce sicura e priva di esitazioni, come i dialoghi sempre ricchi di forza, certezza e fiducia, mi davano una carica incredibile, una fonte di inarrendevolezza. Prendersi cura di un paziente Alzheimer non è semplice, lo sappiamo. Lui, a noi figli, non ha mai fatto pesare quella dura e pesante situazione in cui viveva. Assistere 24 ore su 24 un paziente con una malattia neurodegenerativa e nel contempo essere coniugi non è da tutti. Vedere la compagna di una vita perdersi in un mondo senza memoria, in un viaggio ovattato, su una sedia a rotelle e con un biglietto di sola andata, ci vuole coraggio, determinazione, forza mentale e anche fisica. Bisogna nascere con quel coraggio e con lo stesso coraggio affrontare, fino all’ultimo, anche la malattia che lo colpì portandoselo via. Sono convinto che l’insorgere della malattia con il suo repentino aggravarsi, subito dopo la scomparsa di mamma, erano strettamente collegate. Il compimento di quelle azioni quotidiane rivolte verso la moglie, come la cura della persona, l’igiene intima, il cambio degli indumenti e degli ausili ad assorbenza, la preparazione e somministrazione dei pasti e farmaci, lo stimolarla parlandole e il raccontarci di come aveva trascorso la giornata, erano per lui tutte ragioni di vita e per noi figli, anche se mamma si era allontanata con la mente, il modo per tenere sempre vivo e forte il legame, quello della famiglia. Papà aveva la sua età e certamente, nonostante avesse forza, non poteva continuare la gestione di mamma totalmente da solo, era necessario un aiuto. Con mia sorella decidemmo di ricorrere ad un supporto esterno, una badante. Non fu semplice convincerlo. La reazione alla proposta fu dura, provocando uno scontro di idee assai acceso tra noi figli e lui. Si arrivò comunque a convincerlo. La prima fu una donna di origine sudamericana, la seconda albanese, la terza africana, la quarta russa, la quinta asiatica. Nella tragicità del momento un aspetto ironico, mancava una rappresentante del Continente dell’Oceania e dell’Antartide e avevamo fatto il giro del mondo in cerca di una badante. Nell’insieme non durarono più di tre/quattro mesi. Le stesse decisero autonomamente di non continuare il servizio constatato che mio padre, oltre a non accettare estranei in casa, non tollerava persone che prendessero in mano situazioni e iniziative. Decise e impose che l’individuazione e scelta di una badante fosse unicamente sua prerogativa. Fu così che un giorno, recandoci a casa sua dopo il lavoro, trovammo una donna da poco giunta dalla Romania. Una persona molto riservata ed educata. Nonostante inizialmente non conoscesse la lingua, capì immediatamente come muoversi e comportarsi con papà. Una donna molto intelligente, lungimirante, veloce nell’apprendere non solo la lingua italiana, ma anche usi e tradizioni dell’Italia. Mio padre, oltre a insegnarle il significato delle parole e costruzioni grammaticali, riuscì a farle apprendere l’arte del cucinare secondo la tradizione italiana (sua grande passione) e con essa la necessità di studiare e far propri concetti, informazioni, leggi necessarie a gestire e risolvere situazioni che la vita poneva. Le impartì addirittura lezioni di aritmetica e geometria. Essendo un perito industriale, con tanta passione per quelle materie, sosteneva che la matematica era alla base di tutto e i numeri protagonisti nella storia dell’uomo. Una piccola parentesi. Prima che la bara venisse chiusa, riponemmo all’interno un quaderno, una matita, un temperino, una gomma e due dei suoi vecchi libri di scuola, matematica e tecniche di disegno e progettazione industriale. Forse lassù avrebbe avuto piacere di insegnare a qualche angelo alcune formule aritmetiche. La tenacia della donna, la forza fisica e un corretto approccio nell’accudire una persona affetta da Alzheimer, furono doti essenziali per mio padre, tanto che arrivò a riporre in lei la massima fiducia. Dimenticavo, il suo nome era Gherghina. Gherghina rimase per quasi dieci anni nella nostra casa, prima assistendo mamma e poi papà. In Romania ci tornò definitivamente dopo la scomparsa di mio padre. Il ruolo mio e di mia sorella non fu affatto marginale, il nostro contributo lo davamo con lo stesso amore con cui loro ci crebbero, educarono, istruirono, senza mai farci mancare nulla, senza mai essere assenti sia nelle nostre difficoltà che nei momenti di gioia e successo. È comunque vero che a volte mi sentivo uno spettatore passivo, avrei voluto fare e dare qualcosa in più per vedere mamma reagire a una carezza, a un bacio, a un voltarsi se chiamata per nome, ma a qualsiasi mio cenno di richiamo la risposta era uno sguardo fisso e perso su un punto non definito in una “loquacità muta”. Ho provato ad immedesimarmi in lei, solo per un attimo, povero illuso mi sono detto, come puoi pensare di riuscirci. Come puoi immedesimarti in quel perdere la memoria, in quel non riconoscere chi hai sposato, partorito, nutrito, cresciuto. Immaginavo parole, pensieri, ricordi che nella sua mente si muovevamo confusamente in un labirinto di corridoi, che si incrociavano e cozzavano tra loro in una penombra prodotta da spiragli di luce impigliata tra le maglie della consapevolezza di non riuscire a fare ciò che si faceva prima. Con mamma tentavo un dialogo. Avrei voluto riallacciarmi a lei con quello stesso cordone ombelicale che ci ha tenuti uniti nel suo grembo, per trasmetterle ricordi, pensieri, parole, suoni, per arrivare a farle ricordare il mio primo vagito. Quest’anno sono già undici anni che mamma se ne è andata. Sulla lastra di marmo dove è inciso il suo nome o a casa nella cornice di un portafoto osservo la sua immagine, le racconto che spesso mi capita di non ricordare una parola, un evento, un nome, una data. Le domando, “…mamma, sono forse segnali?”, poi sento chiamare, mi giro, vedo mio figlio, mia moglie, li chiamo per nome, parlo con loro dell’oggi, del domani, di anniversari, scadenze, impegni, ricorrenze, appuntamenti, incontri e di tutto quello che gira attorno a una famiglia. Parliamo di ieri, dell’altro ieri, di un mese fa, di un anno fa, di sette anni fa quando papà ci lasciò, di undici anni orsono quando mamma lo precedette, di sedici anni fa quando mamma si perse stando seduta su quella sedia. Capita che racconto di lei, di quando mi accompagnava all’asilo o in riva al mare. Eravamo proprio al mare ed era la metà degli anni sessanta. Un giorno, incautamente e senza che mia mamma se ne accorgesse, mi allontanai da solo per andare in riva al mare, mi persi tra ombrelloni, sdraio e bagnanti. Lei mi ritrovò piangente. Da lontano udì la mia voce che singhiozzante chiamava mamma e scorse il rosso dei miei capelli. Ancora oggi, nonostante capelli e barba sono diventati bianchi, da lontano, da molto lontano, mi sente, mi vede, mi riconosce. Ogni tanto mi domando: “…perché non ti decidi a portare via quella sedia, a disfarti di un qualcosa che riporta alla memoria un momento cosi doloroso?”, invece la sedia rimane lì con la sua polvere. Ci guardiamo e parliamo con un dialogo composto di parole che sono sguardi carichi di polvere, di perché, di malinconia, rabbia, paura, nostalgia, tenerezza e dolcezza. Parliamo di noi, parliamo di tanti ricordi, parliamo di tanta memoria.

 

Sergio Saracchini

ilcalamaiodelcuore

0uno0cinque2000venti1

domenica 11 aprile 2021

Semplicemente per nome


 

Semplicemente per nome

 

In questo cielo lattiginoso

le nuvole hanno scritto

pallide parole misere

che rami nudi d’albero

leggono con lacrime nostalgiche

          per un raggio timido di sole.

Verrà la danza delle urla dei bimbi

e il richiamo di giovani madri

a seminar la luce che dissolve

le nebbie stagionali di questo tempo

che impone il solo miraggio

di un giardino libero

dove i fiori sono labbra

e i petali sospiri profumati

nel loro sbocciare.

Verrà il tempo delle parole

di ritorno dall’esilio

imposto dal silenzio

che ha serrato le menti

e incattivito di tristezza

la speranza di risentire

cose buone

come semplicemente

l’esser chiamato per nome

come una madre

col proprio figlio.

 

Sergio Saracchini 12/04/2021

ilcalamaiodelcuoreblog