domenica 25 ottobre 2020

D P C M

 

DPCM

 

Tutti i visi erano sereni. Il luogo, in quell’occasione e a quell’ora, era affollato ma non troppo e il distanziamento rispettato. Nulla e nessuno ostacolava il passaggio. Il DPCM contemplava alcune restrizioni, dove prima era permesso ora il limite veniva imposto. A discrezione delle autorità competenti piazze e viali, di massimo transito, potevano diventare zone rosse . Le attività dei servizi di ristorazione, bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie, erano consentite dalle ore 5 del mattino sino alle ore 24 con consumazione al tavolo e fino alle ore 18 in assenza di posti a sedere. Inoltre, fino a 6 persone il numero massimo di consumatori che potevano prendere posto al tavolo. Col passare del tempo si ventilava che un ulteriore nuovo DPCM potesse portare ad una situazione di “coprifuoco”, termine che mi riconduceva ai racconti dei miei genitori durante la guerra. Le disposizioni riguardavano anche scuole e mezzi pubblici, insomma, accorgimenti necessari a contrastare il diffondersi del virus. Oltre a questo non c’era altra soluzione, anzi no mi correggo una barriera esisteva, la mascherina, l’obbligo tassativo della mascherina. L’stinto di togliermela, per poter respirare liberamente, era notevole, ma qualcuno dei presenti, che come me transitava, avrebbe potuto giustamente protestare e imprecarmi contro parole quali “sprovveduto incosciente”, per arrivare a tacciarmi d’essere un  “potenzialeasintomaticountorenomasknegazionistapositivoinunmomentonegativo”.

La condensa prodotta dal respiro sotto la mascherina mi appannava in maniera consistente e persistente l’interno delle lenti degli occhiali. Quella semplice e buffa situazione mi ricordò l’Alfasud del 1970 di mio padre.  I vetri fortemente appannati dall’interno per la mancanza d’aria calda dai bocchettoni, la non dotazione di un sistema di aria condizionata nell’auto, il mio divieto imposto, agli amici, di non abbassare i finestrini perché si potevano bloccare e faceva freddo e il crescente fattore umidità prodotto da chi era stipato nell’abitacolo, lasciavano un’unica alternativa, quella di pulire l’interno del parabrezza o usando occasionalmente il dorso della mano o quasi sempre un lurido straccio conservato come un orrido peloso feticcio tribale che, oltre a non assorbire e asciugare, lasciava strisce e aloni che ricordavano le immagini satellitari del meteo in tempo reale con l’arrivo di un vortice perturbazionale di bassa pressione a carattere ciclonico.  Mancava che lo straccio riproducesse l’immagine di un serio esperto meteorologo quale il mitico Generale Edmondo Bernacca, con il barometro rotondo alle sue spalle, e le previsioni erano pronte. Tornando ai miei occhiali avrei potuto toglierli e risolto il problema dell’appannamento ma rimaneva quello della vista che, constatata la mia forte miopia, mi avrebbe fatto procedere brancolando in una fitta foschia. Praticamente,  con la mascherina e gli occhiali  o con la mascherina ma senza occhiali la situazione nebbia persisteva. A parte questa parentesi descrittiva, certamente  comica, di come il mio occhiale si trovasse appannato, l’istinto di abbassare la mascherina sotto il naso per respirare liberamente era tanto, ma non lo feci, decisi di rimanere nelle condizioni persistenti delle previsioni del Generale Bernacca “consistenti banchi di nebbia in Valpadana…”. Ai tempi della scuola per dire che la nebbia era fitta si usava la battuta “… la nebbia oltre a essere a banchi è anche a cattedre...” Oggi mi adeguo e aggiungo che se la nebbia, a banchi, avesse le “rotelle” con una spinta riuscirei a spazzarla via.

Con le persone che incrociavo ci si scambiava uno sguardo veloce accompagnato da una sorta di saluto, a questo anche il pensiero che l’avere tutti la mascherina ci portava ad uno stato di tranquillità, protezione e blindatura verso ignoti e innocenti propagatori di virus.

Proseguendo il mio cammino avvistai  in lontananza una sagoma che di primo acchito mi sembrava familiare. La condensa prodotta dalla mascherina che appannava il parabrez… cioè le lenti, il chinare la testa un po’  in avanti e un po’ in dietro per cercare, inutilmente,  di produrre una sorta di corrente d’aria che potesse aiutarmi a disappannare gli occhiali prima di arrivare a incrociare la persona,  mi portò, annebbiato, a trovarmi faccia a faccia, anzi mascherina a mascherina, con l’individuo che aveva lo stesso mio inconveniente alle lenti dei suoi occhiali. Ci soffermammo e il dubbio di conoscerci ci assalì simultaneamente. Ci riconoscemmo. Un vecchio conoscente di famiglia. Dalle nostre bocche non uscirono parole ma suoni ovattati e soffocati, questo non tanto da me ma da lui essenzialmente. Presto detto il perché. Il tono della sua voce era sempre stato basso e come il mio udito si era ulteriormente abbassato, inoltre l’acufene che avevo mi limitava, ancora di più,  il percepire distintamente le parole.  Indossava una di quelle mascherine che pure io avevo  acquistato nel primo lockdown, quando in giro se ne trovavano pochissime e le farmacie te le facevano pagare come un capo acquistato nel Quadrilatero della Moda, precisamente in Via Monte Napoleone a Milano. Quel tipo di mascherina non la usai mai, non tanto per conservarla e usarla come una reliquia visto il prezzo ma per la sua caratteristica contenitiva. Il dispositivo era stato prodotto con materiale certamente protettivo ma altamente e fortemente elasticizzato. Praticamente il naso veniva schiacciato tipo quello dei cani che appartengono a razze brachicefale (boxer, carlino, buldog …), la bocca era sigillata a tal punto da provocare un’alterazione dell’articolazione temporo-mandibolare per arrivare ad una situazione di risucchio in bocca del tessuto della stessa mascherina. La fase respiratoria la tratterò più avanti.  La prima e unica volta che la indossai, anche con una certa difficoltà, fu naturalmente a casa. Non era dotata di elastico leggero che si colloca attorno alle orecchie (vedi modello chirurgico) ma da due porzioni, a fascia, della stessa mascherina che dovevano essere posizionate una alla base dell’osso occipitale e l’altra tra quello parietale e frontale.  Riuscii a indossare la mascherina. Mi misi di fronte allo specchio e in quel preciso istante incamiciarono a scorrere i titoli e le immagini di due film, Il Silenzio degli Innocenti e Guerre Stellari, uno l’opposto dell’altro, ma le caratteristiche dei protagonisti dei film venivano riprodotte sia sul mio viso che nella respirazione. La maschera del dottor Hannibal Lecter, de Il Silenzio degli Innocenti, e il respiro di Dart Fener o Lord Fener , qual si voglia, di Guerre Stellari.  

Resistetti neanche un minuto. Credo che neppure il grande Enzo Majorca sarebbe riuscito a resistere nonostante una sua prima iperventilazione per una immersione in assetto variabile. La conservo nel suo cellophane, come quella primissima che avevo confezionato con la carta da forno, a ricordo di questa pandemia che mi auguro presto arrivi al termine. Dimenticavo, per la cronaca ne comprai tre, una anche per mio figlio e per mia moglie che, vedendo il risultato sul mio viso, non la estrassero neppure dalla confezione lasciandola integra con ancora il prezzo attaccato, forse per attendere la quotazione in borsa.

Ritorno all’incontro con Dart Fen… cioè con il conoscente.

Dopo esserci scambiati reciproci e brevi mugolii (presumo sul come va e convenevoli vari) ci salutammo, almeno credo. Allontanarsi l’uno dall’altro fu un toglierci dall’imbarazzo di non riuscire a parlare e, soprattutto per me, di sentire. Mai come in quella occasione desideravo mantenere il distanziamento sociale o meglio... vocale.

Si era fatto tardi e guardando l’orologio valutai che era giunta l’ora di rientrare a casa, era l’ora di chiusura. Rimasi solo, in giro non c’era più nessuno.

I loro visi erano sereni e infondevano amore. Mi guardavano ed erano tutti senza mascherina.

Prima di uscire rivolsi lo sguardo verso mia madre e mio padre.    Li salutai e mentalmente dissi “… ci vediamo sabato prossimo”.

Una piccola lacrima mi scese ma non ebbe il tempo di mostrarsi a loro, venne inghiottita all’interno della mascherina. Pensavo, chissà cosa avrebbero detto di questa situazione, loro che hanno visto e vissuto una guerra, che si sono risollevati dopo una guerra, che hanno lavorato e ricostruito dopo una guerra. In un certo senso siamo in guerra anche noi, chi più e chi meno. Una cosa è certa ne usciremo vittoriosi. Sconfiggendo questo nemico invisibile e subdolo ricominceremo a lavorare e a rivivere in piena libertà.

Il cancello si chiuse automaticamente alle mie spalle. Salii in auto e mi accorsi che una piantina di fiori, da posizionare nella vaschetta in marmo, mi era caduta. Non importa, a casa la metterò vicino alla cornice che contiene le loro foto. Mi abbassai la mascherina, le lenti si disappannarono, il respiro tornò regolare e libero. Misi in moto  l’auto e partii.

Mentre percorrevo la strada accessi la radio, cercavo un canale che trasmettesse qualche canzone e musica dei miei tempi. Lo trovai. Stavano trasmettendo il celebre brano “Get Down On It” dei “Kool And The Gang”, gruppo storico degli anni 70-80. Il ritornello della musica mi portò a sostituire la parola Get con Lock.

Guidavo e canticchiavo  … Lock Down On it…   

 Dopo qualche minuto la musica si interruppe lasciando il posto ad una edizione straordinaria del radiogiornale.

Era stato firmato e veniva data lettura di un nuovo DPCM .

          Lock Down On it     


Sergio Saracchini                        

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