Kira: una fiaba moderna
Una via o meglio un vicolo, stretto, buio e senza
uscita. La città era... ma il nome non ha importanza, poteva essere una delle
tante di quel pezzo di mondo, dove nascere, crescere e sopravvivere è solo
questione di fortuna. Fu trovata, come tanti altri bambini partoriti dalla fame
e povertà, in quel vicolo noto a madri e padri che, senza possibilità di
crescere un figlio, lasciavano le loro creature con la speranza che qualche
organizzazione umanitaria potesse raccoglierli e dare loro una vita dignitosa,
prima in un orfanotrofio, quindi in adozione a qualche coppia desiderosa d’avere,
nel calore della loro casa, un bimbo o una bimba. La raccolsero che pesava
pochi etti, non piangeva, ma i suoi occhi erano due immensi laghi scuri che
esprimevano la profondità di quanto desiderio avesse d’essere raccolta e amata.
La ragazza dell’organizzazione umanitaria che scese per prima dal mezzo di
soccorso si diresse, quasi attratta, verso quel fagottino silenzioso. Si
chiamava Mary, aveva venticinque anni e dopo una laurea in filosofia, conseguita
con ottimi voti in una delle migliori università del suo Stato, pensò bene che
la vera strada da percorrere non fosse l’insegnamento filosofico o qualcosa di
attinente agli studi fatti, ma impegnare l’esistenza dedicandosi attivamente
nell’aiuto di chi soffre e meno fortunato. Nonostante Mary provenisse da un’ottima
famiglia agiata, cresciuta in un ambiente sano, circondata da benessere e
comodità, la sua vita fu macchiata dalla sfortuna, una malattia non le
permetteva d’avere figli. Forse questo il motivo principale che la portò a dare
una svolta alla sua esistenza. Mary strinse tra le braccia quella bimba, quasi
a volerla portare al seno e nutrirla, quasi l’avesse partorita lei. Risalì sul
mezzo dell’organizzazione insieme ai suoi colleghi, ognuno con un bimbo o una
bimba tra le braccia. La prassi, raggiunta la sede dell’organizzazione, era
quella che i bimbi fossero consegnati a una comunità di suore che gestivano un
orfanotrofio, per poi essere indirizzati, dopo un periodo di svezzamento, verso
altra struttura, quasi sicuramente quella che si occupava delle adozioni. Mary,
forse perché attratta dalla magia dello sguardo della bimba, forse perché era
una delle sue primissime uscite, non voleva consegnare la bambina alle suore,
se l’era stretta al petto e i colleghi e le suore non fecero poca fatica a
convincerla a consegnare quel piccolo essere. La convinsero invece con una
promessa, quella che sarebbe stata lei a scegliere il nome della bimba. Il nome
fu “Kira” che, nella lingua di quel
paese, significava “Ritornerò”. Mary scelse quel nome perché
qualche giorno prima, durante un incontro con alcuni rappresentanti di una
tribù locale, lo sentì dal racconto di una leggenda di un anziano. L’uomo
raccontava che tra le giovani coppie di un villaggio chi avesse avuto come
secondogenita una bimba doveva donarla, in fede a una tradizione secolare, a
un’altra coppia che non poteva avere figli e appartenente a una tribù amica dislocata
in un villaggio lontano. La leggenda, inoltre, voleva che la bimba fosse donata
alla coppia con al collo metà di una sorta di moneta appesa a un laccio, questo
per permettere ai genitori naturali e alla bimba, una volta divenuta adulta, di
riconoscersi, nel caso si fossero ricongiunti, unendo e facendo combaciare le due metà della
moneta. Solo una leggenda ma Mary volle crederci. Prima di salutare la piccola
Kira, prossima a essere accolta nell’orfanotrofio per poi seguire la strada
dell’adozione, Mary mise al collo della bimba metà di un amuleto in ebano raffigurante
un sole con i raggi, mentre l’altra metà di quel sole la tenne lei al collo. Mary,
fintanto il tempo glielo potesse concedere, continuò a fare visita alla piccola
Kira. Quasi ogni giorno passava a trovarla all’orfanotrofio, le dava da
mangiare, le portava dei vestiti nuovi, giocava con lei, riempiendo di baci
quel visetto che si andava ad arricchire d’immensi sorrisi. Insomma tutto come
tra una madre e una figlia. Mary continuava la sua missione con ancora più
dedizione tanto che i vertici dell’organizzazione, entusiasti del suo lavoro,
dell’ impegno che metteva per migliorare il servizio nella cura dei bimbi, la
proposero nel ricoprire un ruolo dirigenziale in una nuova sede dislocata in un
altro paese dello stesso continente ma lontano
dall’orfanotrofio dove Kira viveva. Mary,
dopo l’idea di rifiutare la proposta per stare vicina a Kira, decise di
accettare il nuovo incarico con l’impegno di tornare a trovarla quando lavoro e
tempo glielo permettessero. E così fu.
Un volo diretto e di poco meno di un’ora le permise di tornare nei fine
settimana a trovare la piccola. La bimba cresceva sana e bella e i suoi occhi,
espressivi e profondi come due laghi immensi dove un sole specchiava tutta la
sua lucentezza, accompagnarono la prima parola, mamma. Sentire quella parola fu
per Mary come averla avuta nel suo grembo e data alla luce. Mary avrebbe voluto
adottare la piccola ma il lavoro e l’assenza di un compagno, in quel momento
della sua vita, non le permisero di compiere quel gesto d’amore. Un gesto
d’amore che poteva segnare la loro definitiva unione come madre e figlia. Il
lavoro di Mary s’intensificò, causa una guerra in atto nel paese in cui
lavorava, e per questa ragione le visite alla piccola Kira si diradarono. Molti
bimbi, orfani di entrambi i genitori morti nel conflitto, avevano bisogno di
assistenza e Mary non poteva permettersi di assentarsi mancando così al suo
impegno. I voli furono sospesi per un lungo periodo e le comunicazioni, spesso,
non permettevano contatti telefonici. Solo da rare e sporadiche fonti d’informazione
apprendeva che l’orfanotrofio non correva pericolo e Kira stava bene. Ma la
situazione peggiorò quando un colpo di stato scoppiò anche nel paese dove Kira
viveva e tutto il territorio fu dichiarato zona di guerra. Per Mary le speranze
di rivedere la piccola in tempi brevi si
ridussero ancora di più. Quel mezzo sole appeso al collo di Mary per quanto tempo
ancora avrebbe dovuto attendere prima di risplendere insieme con quello di
Kira? Passò quasi un anno prima che la guerra le permise di prendere il primo
volo per recarsi in visita da Kira. Prima della partenza le notizie
sull’orfanotrofio erano confuse e contraddittorie. Giunse voce che
l’orfanotrofio era stato sgomberato e tutti gli ospiti dislocati altrove, ma
non si sapeva dove. L’aereo che trasportava Mary atterrò. Il paesaggio era
diverso da come lo aveva lasciato, i segni della guerra erano visibili. Una Jeep
l’attendeva fuori dall’aeroporto e in pochi minuti arrivò all’orfanotrofio. Scesa dalla Jeep Mary rimase sconvolta nel
vedere la struttura che ospitava Kira quasi completamente vuota e nessuno dei
bambini presente. Si precipitò a entrare in uno degli uffici che una volta era
adibito alla prima accoglienza. Una suora le venne incontro, il suo aspetto
provato e il viso in lacrime nel vedere Mary. La suora raccontò che dopo
qualche mese dal colpo di Stato tutti bimbi vennero evacuati, insieme a loro,
naturalmente, anche la piccola Kira. Mary investì di domande la suora ma la
religiosa purtroppo non sapeva molto, solamente che l’organizzazione umanitaria,
contattata dal centro di adozioni,
ricevette disposizioni di preparare i bimbi
perché a breve sarebbero venuti a prenderli. Da lì a pochi giorni i
mezzi del centro adozioni arrivarono, i bimbi caricati e trasferiti, ma la
destinazione ignota, quasi sicuramente in un paese che potesse dare un futuro a
loro e alla piccola Kira. Ancora per quanto tempo quelle due metà di sole
dovevano brillare separate? Lo studio era ampio, semplice ma accogliente, il
tavolo lungo e scuro, di un legno che solo in quel paese si trovava, attorno ad
esso comode e fresche sedie in giunco. Al soffitto le lunghe pale di un
ventilatore rinfrescavano la stanza. Bussarono alla porta e l’avanti risuonò
forte e chiaro. Una giovane entrò. Era la nuova volontaria dell’organizzazione
umanitaria. L’assistente anziana fece cenno alla giovane di avvicinarsi. La donna
si voltò. Il suo fisico asciutto forse leggermente ingobbito, il viso segnato
da qualche ruga ma ancora fresco, i capelli biondi erano mischiati da un’onda di grigio,
ma gli occhi erano vivi di un azzurro intenso. Sembrava l’azzurro di un cielo, limpido
e sereno, che solo in quel paese si trovava. In quel cielo mancava soltanto il
sole, un sole immenso e unico. La donna si avvicinò alla ragazza. I visi delle
due donne, inizialmente seri, s’illuminarono. Una luce intensa, calda e dorata
partiva dalla base del loro collo. Si abbracciarono. La testa della ragazza
sulla spalla della donna. Tra di loro un sole unico brillava in un cielo
azzurro su due occhi immensi come laghi che esprimevano la profondità di quanto
desiderio avesse d’essere raccolta e amata.
Sergio Saracchini
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