domenica 30 luglio 2023

Vagoni di carne e ossa su binari di filo spinato

 

Associazione Culturale   “ Il Muro Magico “,  con il Patrocinio del Museo Nazionale dei Trasporti di La Spezia, del Comune di Bagni di Lucca,  della FIMF, Federazione Italiana Modellismo Ferroviario e del Gruppo Fermodellistico di Livorno,

XV edizione del Premio Letterario  

 “ Il treno “

Vagoni di carne e ossa su binari di filo spinato

di

Sergio Saracchini

Menzione di Merito della Giuria

21 Luglio 2023

Benabbio di  Bagni di Lucca (Lucca)

Il freddo pungente lacerava il corpo con scosse di brividi.  I pochi abiti pesanti, riusciti a indossare prima d’intraprendere la marcia, non erano sufficienti a proteggermi da quell’abbraccio gelido. Riuscii a sistemarmi all’interno di quel lungo treno di esseri umani, con la speranza che altri corpi potessero ripararmi dalle lingue ghiacciate dell’inverno che, con crudeltà, infettavano le profonde ferite provocate dalla violenza sul genere umano. Convogli di carne e di ossa su strada ferrata di filo spinato, conducevano nella tragica trama della storia umana. In lontananza gli sbuffi caldi di fumo delle locomotive, disperdendosi nel cielo, erano liberi di dissolversi nell’aria. Il nostro respiro, uscendo dalle bocche, si cristallizzava all’istante, per poi rompersi, cadendo a terra, come la speranza sotto i nostri piedi. Ci fecero salire sul vagone con spinte, botte e insulti. Non c’erano scompartimenti e sedili, solo un unico spazio per decine e decine di persone. Trovai posto in un angolo del vagone, lasciandomi scivolare rimasi lì, circondato dai battiti dei cuori che intonavano una sola musica, quella della paura. Non vidi ma sentii il chiudersi secco della porta scorrevole. Il treno ripartì. Mentre la velocità del convoglio aumentava, la speranza di sopravvivere diminuiva. Il viaggio della tragedia aveva avuto inizio, un biglietto di sola andata, per la maggior parte di noi, era stato staccato. Passai molte ore in uno stato di dormiveglia pensando che il riuscire a dormire, anche se in una posizione rannicchiata e scomoda, mi avrebbe aiutato a superare le ore del viaggio, non fu così. I pianti disperati dei bimbi, che ancora venivano sfamati al seno materno, mi straziavano le orecchie. Molti cessarono di piangere ma non perché la fame era stata placata. Piccoli corpi, come foglie morte, rimasero appesi tra le braccia, come rami secchi, delle giovani madri. Una ninna nanna stonata, rotta dal dolore, risuonava per tutti.  Nel provare a rimettermi in piedi notai che il pavimento del vagone incominciava a ricoprirsi di un tappeto di corpi, in molti non ressero al freddo, alla fame, alla sete, al dolore. Cercai di raggiungere una piccola finestrella posta molto in alto in un angolo del vagone, volevo vedere fuori, ma le forze non me lo permisero. Usai come scala l’ammasso di corpi di chi era morto sotto quell’esiguo spiraglio sul mondo.  Rimasi aggrappato al bordo di quell’unico occhio del vagone, mentre il filo spinato non permetteva di fare uscire neppure una mano. Sentivo nelle dita gli aghi del freddo conficcarsi e le punte arrugginite di quel filo rendevano il tutto ancora più doloroso. Aggrappato e dolorante, vedevo scorrere le immagini veloci ed offuscate del paesaggio. Un lattiginoso vetro di nebbia ghiacciata delimitava la visione su una distesa di campi ricoperti di neve. La mia memoria, nonostante il dolore fisico e la stanchezza, mi riportò indietro negli anni dell’infanzia. Mio padre, al servizio delle ferrovie, di tanto in tanto mi portava con lui per brevi tratte ferroviarie. Il primo treno su cui salì fu il famoso Centoporte. Un treno con carrozze a cassa metallica e il suo interno con sedili di legno. Sedevo sempre vicino al finestrino, divertendomi in una gara nel ricorrere e superare alberi, case, uomini nei campi. Papà, abbassando di poco il finestrino e reggendomi con le sue forti e robuste braccia, mi permetteva di fare uscire la manina per salutare chi incontravamo al passaggio del treno. Potevano essere contadini, donne in bicicletta, altri bimbi che giocavano a calcio in un campo improvvisato. Un campo senza porte, senza reti, senza recinzioni, un campo in uno immaginario stadio che portava il nome di Campo della Libertà. La cosa più bella era giocare con l’aria. Immaginavo di cavalcarla, compiere capriole o lasciarmi trasportare, libero, in ogni parte del mondo. Un’improvvisa frenata mi fece perdere l’equilibrio, caddi sul pavimento del vagone. Il treno si fermò. Steso a terra incrociai lo sguardo di un mio compagno di viaggio. Gli occhi mi fissavano, la bocca sembrava una ferita non rimarginata. La sua mano teneva stretto qualcosa. Non era un biglietto di viaggio, ma una foto. Si potevano riconoscere dei volti. Chiunque essi fossero erano morti con lui.  Aprirono la porta scorrevole del vagone, un vento gelido con parole urlate in una lingua incomprensibile entrò mischiandosi con il fetore della morte e quel che rimaneva di chi, finora, era sopravvissuto.  Tra i pochi che qualche parola comprendevano e i gesti secchi ed eloquenti, capimmo di dover gettare fuori dal vagone chi non ce l’aveva fatta.  Il loro viaggio era terminato. Scesero, accompagnati dal nostro mesto saluto, ad una fermata che non avrebbero mai pensato fosse l’ultima per loro, in una località che, forse, non avevano mai sentito nominare. Ci ordinarono di ripulire il vagone di quello che era rimasto di noi. Venimmo riforniti di pochi litri d’acqua e di una brodaglia con qualche pezzo di patata. Il numero degli occupanti di quel vagone scendeva, ma la fame e la sete aumentava. La porta scorrevole sbatté forte chiudendosi e il rumore del chiavistello ne sancì la sigillatura fino alla successiva e lontana fermata. Poi, d’incanto, sentii la voce del controllore che richiamava l’attenzione dei passeggeri con il suo “Prego Signori, biglietti… “, le braccia di mio padre che mi alzavano, passandomi dalle sue ginocchia al posto a sedere accanto a lui. Sedili di legno di rovere e ciliegio, valige di pelle collocate sugli appositi portapacchi in listelli sempre di legno, alle pareti immagini di città e di treni su vie ferrate che conducevano nelle emozioni di un viaggio  dei tanti passeggeri. La mente viaggiava nel tempo, un treno lungo con tanti scompartimenti di ricordi, un treno che si fermava nelle stazioni di quei cuori che avevo conosciuto nella mia infanzia e adolescenza. Il treno arrivò a destinazione, mi guardai attorno, ero rimasto solo. Tutti arrivati alla loro stazione, al loro capolinea. Scesi da quel treno e mi incamminai. La testa un bagagliaio con tante valige cariche di ricordi d’angoscia, paura, terrore, solo un piccolo bagaglio a mano con dentro una leggera speranza.  Mentre camminavo notavo che la neve, persistente e compatta prima, si stava sciogliendo e qualche ciuffo d’erba faceva capolino. Anche i rami degli alberi si stavano alleggerendo da quel bianco peso, e i germogli incominciavano a vedersi. Il cielo si aprì e l’azzurro dominò. Le nuvole a poco a poco scomparvero. Sbuffi di vapore di una locomotiva che trainava carri bestiame e alte colonne di fumo dai lunghi camini svanirono inghiottiti dal tempo. Il sole illuminò il mio percorso e incominciai a scaldarmi. Mentre il treno da cui ero sceso ripartì, altri arrivavano per poi riprendere la loro corsa. Delle mani mi salutavano fino a scomparire. Ci saremmo rivisti? In quale stazione? Attorno a me delle ombre, lunghe e silenziose, mi accompagnavano, sentivo le loro voci, i dialoghi, i nomi. Il binario continuava a stare al mio fianco ma non era fatto di filo spinato. Ero ancora sulla pensilina con il mio bagaglio, quando sentii una mano stringere la mia. Era piccola, calda e delicata. Rallentai il passo, già incerto da tempo, mi voltai verso quella dolce presa. Era mio nipote che, con un sorriso, mi invitò a voltarmi. In lontananza delle braccia mi salutavano, era mio figlio con la moglie. Adagiai su una panchina in marmo la valigia, abbracciai quel piccolo ometto, quindi aprii il mio bagaglio. Tirai fuori un pacchetto e lo porsi a mio nipote. Con eccitazione ed euforia lo scartò e aprì la scatola. Tra le sue mani un piccolo modellino di un treno. Un Centoporte.

Sergio Saracchini


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