Associazione Culturale “ Il Muro Magico “, con il Patrocinio del Museo Nazionale dei Trasporti di La Spezia, del Comune di Bagni di Lucca, della FIMF, Federazione Italiana Modellismo Ferroviario e del Gruppo Fermodellistico di Livorno,
XV edizione del Premio Letterario
“ Il treno “
Vagoni
di carne e ossa su binari di filo spinato
di
Sergio Saracchini
Menzione di Merito della Giuria
21 Luglio 2023
Benabbio di Bagni di Lucca (Lucca)
Il freddo pungente lacerava il corpo con scosse di
brividi. I pochi abiti pesanti, riusciti
a indossare prima d’intraprendere la marcia, non erano sufficienti a proteggermi
da quell’abbraccio gelido. Riuscii a sistemarmi all’interno di quel lungo treno
di esseri umani, con la speranza che altri corpi potessero ripararmi dalle
lingue ghiacciate dell’inverno che, con crudeltà, infettavano le profonde
ferite provocate dalla violenza sul genere umano. Convogli di carne e di ossa
su strada ferrata di filo spinato, conducevano nella tragica trama della storia
umana. In lontananza gli sbuffi caldi di fumo delle locomotive, disperdendosi nel
cielo, erano liberi di dissolversi nell’aria. Il nostro respiro, uscendo dalle
bocche, si cristallizzava all’istante, per poi rompersi, cadendo a terra, come
la speranza sotto i nostri piedi. Ci fecero salire sul vagone con spinte, botte
e insulti. Non c’erano scompartimenti e sedili, solo un unico spazio per decine
e decine di persone. Trovai posto in un angolo del vagone, lasciandomi
scivolare rimasi lì, circondato dai battiti dei cuori che intonavano una sola
musica, quella della paura. Non vidi ma sentii il chiudersi secco della porta
scorrevole. Il treno ripartì. Mentre la velocità del convoglio aumentava, la
speranza di sopravvivere diminuiva. Il viaggio della tragedia aveva avuto
inizio, un biglietto di sola andata, per la maggior parte di noi, era stato
staccato. Passai molte ore in uno stato di dormiveglia pensando che il riuscire
a dormire, anche se in una posizione rannicchiata e scomoda, mi avrebbe aiutato
a superare le ore del viaggio, non fu così. I pianti disperati dei bimbi, che
ancora venivano sfamati al seno materno, mi straziavano le orecchie. Molti
cessarono di piangere ma non perché la fame era stata placata. Piccoli corpi,
come foglie morte, rimasero appesi tra le braccia, come rami secchi, delle
giovani madri. Una ninna nanna stonata, rotta dal dolore, risuonava per tutti. Nel provare a rimettermi in piedi notai che
il pavimento del vagone incominciava a ricoprirsi di un tappeto di corpi, in molti
non ressero al freddo, alla fame, alla sete, al dolore. Cercai di raggiungere una
piccola finestrella posta molto in alto in un angolo del vagone, volevo vedere
fuori, ma le forze non me lo permisero. Usai come scala l’ammasso di corpi di
chi era morto sotto quell’esiguo spiraglio sul mondo. Rimasi aggrappato al bordo di quell’unico
occhio del vagone, mentre il filo spinato non permetteva di fare uscire neppure
una mano. Sentivo nelle dita gli aghi del freddo conficcarsi e le punte
arrugginite di quel filo rendevano il tutto ancora più doloroso. Aggrappato e dolorante,
vedevo scorrere le immagini veloci ed offuscate del paesaggio. Un lattiginoso
vetro di nebbia ghiacciata delimitava la visione su una distesa di campi
ricoperti di neve. La mia memoria, nonostante il dolore fisico e la stanchezza,
mi riportò indietro negli anni dell’infanzia. Mio padre, al servizio delle
ferrovie, di tanto in tanto mi portava con lui per brevi tratte ferroviarie. Il
primo treno su cui salì fu il famoso Centoporte. Un treno con carrozze a
cassa metallica e il suo interno con sedili di legno. Sedevo sempre vicino al
finestrino, divertendomi in una gara nel ricorrere e superare alberi, case,
uomini nei campi. Papà, abbassando di poco il finestrino e reggendomi con le
sue forti e robuste braccia, mi permetteva di fare uscire la manina per
salutare chi incontravamo al passaggio del treno. Potevano essere contadini,
donne in bicicletta, altri bimbi che giocavano a calcio in un campo
improvvisato. Un campo senza porte, senza reti, senza recinzioni, un campo in
uno immaginario stadio che portava il nome di Campo della Libertà. La cosa più bella era giocare con l’aria.
Immaginavo di cavalcarla, compiere capriole o lasciarmi trasportare, libero, in
ogni parte del mondo. Un’improvvisa frenata mi fece perdere l’equilibrio, caddi
sul pavimento del vagone. Il treno si fermò. Steso a terra incrociai lo sguardo
di un mio compagno di viaggio. Gli occhi mi fissavano, la bocca sembrava una
ferita non rimarginata. La sua mano teneva stretto qualcosa. Non era un
biglietto di viaggio, ma una foto. Si potevano riconoscere dei volti. Chiunque
essi fossero erano morti con lui. Aprirono la porta scorrevole del vagone, un
vento gelido con parole urlate in una lingua incomprensibile entrò mischiandosi
con il fetore della morte e quel che rimaneva di chi, finora, era
sopravvissuto. Tra i pochi che qualche
parola comprendevano e i gesti secchi ed eloquenti, capimmo di dover gettare
fuori dal vagone chi non ce l’aveva fatta.
Il loro viaggio era terminato. Scesero, accompagnati dal nostro mesto saluto,
ad una fermata che non avrebbero mai pensato fosse l’ultima per loro, in una
località che, forse, non avevano mai sentito nominare. Ci ordinarono di
ripulire il vagone di quello che era rimasto di noi. Venimmo riforniti di pochi
litri d’acqua e di una brodaglia con qualche pezzo di patata. Il numero degli
occupanti di quel vagone scendeva, ma la fame e la sete aumentava. La porta
scorrevole sbatté forte chiudendosi e il rumore del chiavistello ne sancì la
sigillatura fino alla successiva e lontana fermata. Poi, d’incanto, sentii la
voce del controllore che richiamava l’attenzione dei passeggeri con il suo “Prego
Signori, biglietti… “, le braccia di mio padre che mi alzavano, passandomi
dalle sue ginocchia al posto a sedere accanto a lui. Sedili di legno di rovere
e ciliegio, valige di pelle collocate sugli appositi portapacchi in listelli
sempre di legno, alle pareti immagini di città e di
treni su vie ferrate che conducevano nelle emozioni di un viaggio dei tanti passeggeri. La mente viaggiava nel
tempo, un treno lungo con tanti scompartimenti di ricordi, un treno che si
fermava nelle stazioni di quei cuori che avevo conosciuto nella mia infanzia e
adolescenza. Il treno arrivò a destinazione, mi guardai attorno, ero rimasto
solo. Tutti arrivati alla loro stazione, al loro capolinea. Scesi da quel treno
e mi incamminai. La testa un bagagliaio con tante valige cariche di ricordi d’angoscia,
paura, terrore, solo un piccolo bagaglio a mano con dentro una leggera
speranza. Mentre camminavo notavo che la
neve, persistente e compatta prima, si stava sciogliendo e qualche ciuffo
d’erba faceva capolino. Anche i rami degli alberi si stavano alleggerendo da quel
bianco peso, e i germogli incominciavano a vedersi. Il cielo si aprì e
l’azzurro dominò. Le nuvole a poco a poco scomparvero. Sbuffi di vapore di una
locomotiva che trainava carri bestiame e alte colonne di fumo dai lunghi camini
svanirono inghiottiti dal tempo. Il sole illuminò il mio percorso e incominciai
a scaldarmi. Mentre il treno da cui ero sceso ripartì, altri arrivavano per poi
riprendere la loro corsa. Delle mani mi salutavano fino a scomparire. Ci
saremmo rivisti? In quale stazione? Attorno a me delle ombre, lunghe e
silenziose, mi accompagnavano, sentivo le loro voci, i dialoghi, i nomi. Il
binario continuava a stare al mio fianco ma non era fatto di filo spinato. Ero
ancora sulla pensilina con il mio bagaglio, quando sentii una mano stringere la
mia. Era piccola, calda e delicata. Rallentai il passo, già incerto da tempo,
mi voltai verso quella dolce presa. Era mio nipote che, con un sorriso, mi
invitò a voltarmi. In lontananza delle braccia mi salutavano, era mio figlio
con la moglie. Adagiai su una panchina in marmo la valigia, abbracciai quel
piccolo ometto, quindi aprii il mio bagaglio. Tirai fuori un pacchetto e lo
porsi a mio nipote. Con eccitazione ed euforia lo scartò e aprì la scatola. Tra
le sue mani un piccolo modellino di un treno. Un Centoporte.
Sergio Saracchini
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